“Andiamo avanti indisturbati”. Ferma, determinata. Quasi tronfia. Christine Lagarde ha risposto in questo modo a chi le chiedesse conto sulla sentenza della Corte di Karlsruhe e delle conseguenze che questa potesse avere sul cammino del programma Pepp. Un bel sollievo, a detta di molti. In effetti, i media hanno molto rimarcato queste parole, quasi a voler chiudere in fretta i conti con l’ennesima rogna tedesca giunta a turbare il sereno andamento della stamperia su fondo azzurro-stellato. Volendo essere pignoli, gioverebbe ricordare che stiamo parlando della medesima persona che non più tardi dello scorso 19 marzo aveva altrettanto chiaramente sentenziato come il compito della Bce non fosse quello di tamponare gli spread sovrani, salvo rimangiarsi tutto con i fatti (e con gli interessi) nell’arco di una settimana. Ma non badiamo ai formalismi. Andiamo al sodo.



Questo Paese, purtroppo, non riesce a fare i conti con la realtà. La rifugge, la nega in nuce, la teme a tal punto da rimuoverla dall’agenda. Salvo, poi, dover perennemente rincorrere le emergenze. Bene, sapete cosa penso? Primo, una ristrutturazione del nostro debito è ormai ineluttabile. Secondo, il nostro “boia” non avrà le fattezze on po’ old fashioned dei giudici in rosso di Karlsruhe, ma l’eleganza impeccabile proprio di madame Lagarde, sorriso e abbronzatura d’ordinanza comprese. Provo a spiegarmi. E per farlo, mi scuserete se faccio un breve passo indietro. Per l’esattezza, al 27 aprile e al documento redatto da Bankitalia e trasmesso alla Camera in vista delle audizioni riguardo l’impatto economico del coronavirus.



La parte più interessante è contenuta, a mio avviso, nella risposta che palazzo Koch offre come possibile soluzione alle farraginosità riscontrata nell’erogare in partenza i prestiti annunciati dal Governo per le imprese. Eccola: “La necessità di effettuare e documentare una valutazione di questo tipo viene motivata dalle banche con il rischio legale di incorrere nei reati connessi con una anomala erogazione del credito (rischio che è in relazione inversa con il merito di credito del debitore)”, conclude Bankitalia. Insomma, di fatto o il Governo aumentava il potere di garanzia con iniezioni dirette oppure doveva garantire lo scudo penale agli istituti di credito. Riassumendo il quadro in maniera pragmatica, tertium non datur.



Ora, il Governo non ha un euro, quindi iniezioni dirette e anticipatorie le aziende se le possono scordare, tanto che il famoso Decreto Aprile si è già tramutato in Decreto Maggio. Ma al di là di questo, c’è un altro particolare interessante, mostrato plasticamente da questi due grafici elaborati dalla Bce.

Nel mese di marzo, i prestiti bancari a soggetti non finanziari nell’eurozona hanno toccato il controvalore record assoluto di 118 miliardi di euro. Per mettere la questione in prospettiva, basti ricordare come il primato precedente risalisse al dicembre 2008 con “soli” 66 miliardi di euro. Di fatto, il doppio dell’ammontare. Quindi, non è vero che le banche – almeno a livello europeo – non erogano prestiti alle aziende. È però il secondo grafico, quello che disaggrega il dato per nazione, a mostrare l’anomalia: se le banche francesi hanno infatti garantito alle PMI transalpine 38 miliardi di euro (un terzo del totale) e quelle tedesche 22 miliardi, l’Italia con i suoi istituti si piazzava solo al terzo posto con 17 miliardi di euro, appaiata ai 16 erogati dalle banche spagnole. Insomma, le aziende italiane – colpite rispetto alle concorrenti europee da un lockdown pressoché totale, cominciato almeno un mese prima e in gran parte ancora in atto (vedi il comparto commercio e turismo) – hanno potuto beneficiare di un controvalore di prestiti e liquidità pari a meno della metà di quelle francesi e inferiore anche a quelle tedesche, soggetti facenti capo a un’economia che partiva da uno stato di salute migliore e che a livello produttivo non ha mai vissuto un periodo di blocco totale.

Qualcosa non va. Perché, proiezioni alla mano, a nessuno è sfuggita la traiettoria “italiana” di rischioso aumento della ratio debito/Pil cui va incontro proprio la Francia. Così come il fatto che il suo sistema bancario sia intasato pericolosamente da prodotti strutturati e illiquidi e leveraged loans. Ma nonostante questo, gli istituti d’Oltralpe paiono riporre fiducia cieca in una soluzione europea ai guai in atto, in primis attraverso l’operato della Bce. Cosa li rende così sicuri da garantire loro un’attitudine tanto “generosa” verso l’economia reale?

E non basta, perché come mostra questo grafico, che avevo già pubblicato nel mio articolo di giovedì, le banche francesi paiono aver messo il turbo, stante il livello di denaro preso in prestito dalla Bce nell’asta Tltro del mese di aprile. Quindi, altra liquidità che formalmente dovrebbe servire proprio allo scopo di mantenere attivo e ben oliato il meccanismo di trasmissione del credito.

Eppure, il comparto bancario francese è parecchio carico di derivati e prodotti illiquidi, appunto. Insomma, dei bei cuscinetti di capitale farebbero comodo, piuttosto che un’erogazione a pioggia di attivi che rischia, stante la situazione macro nazionale ed europea, di tramutarsi in uno tsunami di insolvenze e sofferenze future. Ma ecco la questione reale, il dato di fatto che mi fa pensare male. La mia paura è che, giocoforza, Bce e istituzioni europee saranno costrette a scegliere chi salvare fra un sistema come quello italiano, schiacciato da Npl e doom loop sulle detenzioni di debito in seno al comparto bancario e quello francese, ultimamente molto esposto sul ramo derivati e prodotti esotici, tanto da aver visto Bnp Paribas correre ad acquistare a prezzo non proprio di saldo il ramo prime brokerage di Deutsche Bank. Parigi come la nuova City del post-Brexit, questo il progetto.

Chi salvare, quindi? Il primo è strutturalmente insolvente, il secondo a perenne e crescente rischio di controparte e di leva. Chi fra i due è più gestibile, a livello sistemico? E qui arriva il discrimine, come mostra questa tabella relativa alle detenzioni di debito italiano da parte dei vari sistemi bancari europei. Come vedete, i dati compilati da Goldman Sachs risalgono al giugno 2018, ma, stante le dinamiche occorse e il fatto che il regime di scudo da Qe sia di fatto durato senza soste (se non tre, quattro mesi di pantomima da tapering a ridosso dell’addio di Mario Draghi), gli scostamenti sul nostro spread avvenuti nel medesimo arco temporale ci fanno intendere che nessuno si sia liberato di quantità enormi di Btp. Insomma, chi detiene il maggior numero di titoli di Stato italiani, dopo il nostro sistema bancario e la Bce? Gli istituti francesi, qualcosa come 285,5 miliardi di controvalore, stando ai dati di due anni fa. Vogliamo essere pessimisti e pensare che, godendo del regime di acquisti sul secondario dell’Eurotower, si siano messi un po’ a dieta, vendendo? Bene, voglio esagerare: diciamo che oggi abbiano in pancia “solo” 200 miliardi di Btp.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Guardate il secondo detentore continentale, la “cattiva” Germania a quale controvalore era: 58,7 miliardi. Anche volendo pensare che i francesi abbiano scaricato il nostro debito e i tedeschi no, magari per farsi perdonare il 2011, parliamo comunque di 4 volte tanto. E vi assicuro, i francesi non hanno venduto debito italiano per 80 miliardi in due anni. Per una ragione semplice. Anzi, due. Primo, la Bce che schermava quel premio di rischio a bilancio. Secondo, gli interessi che il sistema bancario francese ha in Italia. E le mire a cui punta, da sempre. Avere in mano una pistola carica è meglio che averla in tasca, non vi pare? Quindi, al netto della sentenza di Moody’s sul nostro rating (pubblicata ieri sera, quando questo articolo era già stato inviato e impaginato), cosa potrebbe innescare tensioni sul nostro spread, stante l’atteggiamento formalmente indifferente della Bce ai diktat giunti da Karlsruhe?

Solo un’ondata di vendita tale da costringere Francoforte a un backstop esagerato, di fatto un salvataggio diretto di uno Stato membro attraverso la monetizzazione del suo debito. Ergo, proprio la sproporzione nell’attività denunciata dalla Corte di Karlsruhe. Siete davvero sicuri che Christine Lagarde, la stessa che ha rapidamente travestito da gaffe la sua uscita sugli spread da comprimere (che gaffe non era), non sia cosciente dello stato di salute delle banche francesi? E se si arriverà a un punto di svolta, quando anche le aste Tltro si mostreranno per ciò che sono, ovvero poco più che coperte di Linus di un azzardo morale proseguito indisturbato per anni grazie agli acquisti onnivori della gestione di Mario Draghi, chi verrà sacrificato? Il finanziarizzato sistema francese, il quale però può portare come nota sul curriculum il fatto di aiutare contestualmente l’economia reale con erogazioni di credito record o quello italiano, tutto incagli e sovra-esposizione al rischio sovrano del Paese?

Più facile gestire il secondo, non c’è dubbio. Ristrutturando. Tanto più che, nell’operazione, potrebbe saltar fuori anche qualche bella occasione a prezzo di saldo, quando fioccheranno gli aumenti di capitale obbligati ed emergenziali e comincerà la sfilata dei “cavalieri bianchi” da oltre confine. Anche la tempistica, sia i tre mesi offerti dalla Corte di Karlsruhe che la risposta immediata e quasi sprezzante della Bce (nel silenzio totale della Bundesbank), parla chiaro. Così come il contestuale emergere di un testo abborracciato sul nuovo Mes, di fatto una rivisitazione di quello originario ma con qualche parolina messa al punto giusto sulle condizionalità solo sanitarie e sull’assenza di controllo postumo dei conti, non appare casuale, oltretutto alla vigilia dell’Eurogruppo.

Signori, stavolta penso davvero che sia arrivato il proverbiale momento del fuori i secondi, come nel pugilato. E per quanto a molti faccia comodo vedere la Germania come esecutore materiale dell’operazione, è la Francia a muovere i fili. Per interesse diretto e di sopravvivenza: quanto tempo fa vi avevo detto che Ubi Banca sarebbe convolata a nozze non in casa ma con Credit Agricole? Andate a rivederlo nell’elenco dei miei articoli sul sito. Anzi no, vi evito il disturbo: era il 12 marzo scorso. Ora aspettate qualche mese. Forse meno.

La Germania? Vi invito a leggere l’ottima analisi messa in campo al riguardo su Limes, ad ascoltare l’audio di presentazione del direttore Lucio Caracciolo su un possibile Settentrione “tedesco” e a dare un’occhiata a questa cartina, la quale rappresenta la cosiddetta Kerneuropa, ovvero la catena del valore tedesco, ciò che strutturalmente diviene area omogenea agli interessi commerciali, industriali, produttivi delle Germania in seno all’Europa. E non più all’Ue.

Stiamo vivendo la Storia nel suo strutturarsi. Ma provinciali come siamo, vediamo soltanto i dati sul contagio, le mascherine a 50 centesimi e le baruffe sulle riaperture dei parrucchieri. Ma magari, mi sbaglio.

P.S. AGGIORNATO E RIASSUNTIVO: Scampato – come era ampiamente prevedibile – il rischio downgrade da parte di Moody’s e Dbrs, parliamoci chiaro: il nuovo Mes è soltanto il vecchio Mes con il rossetto. Lipstick on a pig, come dicono gli anglosassoni. Quei 37 miliardi sono necessari per varare il famoso “Decreto aprile” da 55 miliardi, non a caso già diventato “Decreto maggio” perché non c’era un euro in cassa. Ora si contabilizzeranno quei fondi ex ante e li si userà come copertura, unendo qualche altro miliardino raccattato qua e là. Tanto nessuno può dirti niente: se quando si verificherà la loro destinazione, emergerà un utilizzo non a finalità sanitaria, si pagherà la penale sul tasso di interesse concordato. Nel frattempo, però, si fa un figurone. O, quantomeno, si evita almeno una figuraccia. E chissà poi chi ci sarà al governo, quando arriverà la multa.

Sicuri? Perché per essere stata una sentenza dipinta come locale e senza alcuna validità vincolante, quella emessa dalla Corte di Karlsruhe ha scomodato un po’ troppi alti papaveri in vena di urgenti rassicurazioni. La verità, così come per il Mes sta altrove: dati della Bce legati alle aste Tltro e agli acquisti del Pepp dicono chiaramente che occorre scegliere quale sistema bancario salvare. O quello francese, finanziarizzato o quello italiano, sottocapitalizzato. E con una presidente Bce transalpina e il rischio su derivati e titoli illiquidi che porta guai sulla catena di controparte poco quantificabili, la scelta appare scontata. Oltretutto, stante le mire francesi su alcuni istituti italiani. E un piccolo particolare. Al giugno 2018, le banche d’Oltralpe avevano in pancia 285,5 miliardi di debito italiano. Tutto venduto, sfruttando gli acquisti di Mario Draghi? Escluso. Quindi, cosa potrebbe far precipitare la situazione, da qui a qualche settimana? Una bella svendita, stile 2011. In modo che la Bce debba operare da backstop diretto nel salvataggio sovrano di uno Stato membro, monetizzandone il debito. Et voilà, la sproporzione evocata dalla Corte di Karlsruhe è servita sul piatto d’argento. E con essa il commissariamento, in punta di istituto dell’early warning contenuto nel Mes (anche nella nuova versione), nel frattempo attivato dal Governo. Che dite, finirà così?