Verrebbe fin troppo facile unire i puntini e chiedersi se davvero sia una coincidenza il fatto che, in contemporanea con il lancio della mega-esercitazione Nato in Kosovo (finalizzata proprio a un intervento rapido di difesa dei confini europei da un’eventuale quanto improbabile offensiva russa), proprio la provincia autonoma sia tornata a essere teatro di violenti scontri fra minoranza serba e polizia kosovaro-albanese. Il problema è che Belgrado ha già deciso di ammassare truppe al confine. E metterle in stato di massima allerta e intervento rapido. Non è la prima volta. Stavolta, però, il flashpoint è di quelli potenzialmente estremi. E il contesto generale in cui si sta sviluppando questa ennesima crisi, decisamente sgradevole.
Primo, la confusione totale che alberga nella politica estera tedesca. Nel giorno in cui Mosca ordinava a decine di civil servants tedeschi di lasciare la Russia, ecco che il Cancelliere rispondeva in maniera quantomeno bizzarra alla richiesta ucraina di missili a lungo raggio Taurus: Kiev non utilizzi armamento tedesco per colpire obiettivi su territorio russo. Perché fornire armi allora? Perché stanziare un nuovo pacchetto di aiuti da 2 miliardi di euro per Kiev solo dieci giorni prima? A cosa pensava che servissero gli armamenti il buon Scholz, forse per i botti di Ferragosto? O forse, dopo aver pavlovianamente sbattuto i tacchi di fronte alla richiesta di fedeltà avanzata dagli Usa, Berlino ha già paura per il conto della bolletta energetica del prossimo autunno?
Non a caso, la Bild venerdì scorso pubblicava un articolo nel quale si parlava di sempre maggiori indizi che indicavano Kiev come responsabile per il sabotaggio di Nord Stream 2. E nello stesso giorno, l’inviato cinese tracciava una red line di quelle destinate a fare “giurisprudenza geopolitica”: Mosca mantenga il controllo delle aree annesse. Tradotto, qualsiasi iniziativa di pace patrocinata o sostenuta da Pechino avrà questa come base. Tanto per mandare un messaggio nemmeno troppo implicito e velato su Taiwan. L’esatto contrario di quanto minacciato da Kiev, la cui intenzione in seno alla controffensiva alle porte sarebbe proprio la riconquista della Crimea grazie alle armi occidentali. Quelle che la Germania invia, ma che non vuole siano utilizzate.
E il Kosovo, perché conta così tanto? Perché dopo aver scaricato l’Ucraina, lasciando ai partner europei la patata bollente della fornitura di F-16, gli Usa hanno stranamente attaccato le autorità kosovare. Essendo quella provincia autonoma nata sotto l’imprimatur diretto del duo Albright-Holbrooke e dopo 72 giorni di bombe Nato, il fatto che Anthony Blinken abbia invitato Pristina al rispetto dei diritti della minoranza serba parla chiaro. Washington non intende far irritare Pechino, sempre più padrino di Mosca. A sua volta, Heimat culturale di Belgrado. Dove nel fine settimana decine di migliaia di persone sono scese in piazza in favore del Governo, della famiglia naturale e per il ritorno del Kosovo sotto controllo serbo. Se divampasse un nuovo incendio balcanico, allora la guerra arriverebbe davvero nel cuore d’Europa. Quella vera e non quella post-sovietica decisa dalla Nato con compassi e righelli. La rotta balcanica esploderebbe. Con la Turchia che ha deciso del suo futuro nel ballottaggio presidenziale e ha scelto altri 5 anni al potere per un Recep Erdogan sempre più lontano dalla Nato. E vicino a Cina e Russia. L’Europa precipiterebbe in una recessione economica senza precedenti. E l’Italia, dopo l’Emilia-Romagna, perderebbe potenza anche nella locomotiva Triveneto.
Attente PMI, ora si rischia davvero. Non a caso, proprio ieri La Repubblica lanciava una strana provocazione, mettendo in guardia dalla via cinese alla pace in Ucraina, definita una trappola tesa a indebolire l’Ue. Invece la strategia Usa di coinvolgimento totale del Vecchio continente, suicidio energetico in testa, a Maurizio Molinari e soci continua a piacere un sacco. Olaf Scholz non è l’unico confuso, apparentemente. Ma l’Italia è davvero un Paese strano. Vanta l’inviato Ue per i rapporti con il Golfo, ma la sua stampa ha totalmente ignorato il Qatar Economic Forum tenutosi la scorsa settimana a Doha, la “Davos del Golfo”.
Certo, la retorica sparsa a piene mani da istituzioni europee e dai medesimi media rispetto a quel colossale ballon d’essai del Qatargate ha giocato una parte fondamentale in questa omissione. Ma se una cosa la realtà imposta a partire dal 2020 dalla pandemia ci ha insegnato è che il mondo ormai non può più fare a meno dell’analisi geopolitica. A 360 gradi. Pena pagare prezzi come quello che quasi schiantava l’economia Ue lo scorso autunno/inverno con la crisi energetica. E mentre tutte le luci dell’informazione di politica estera erano indirizzate sull’ormai mitologica controffensiva ucraina, a Teheran atterrava Elvira Nabiullina, numero uno della Banca centrale russa, per un incontro ufficiale con il suo omologo iraniano, Mohammed-Reza Farzin. Motivo? Il rafforzamento dei legami finanziari fra i due Paesi, fra cui l’eliminazione totale del dollaro nelle transazioni bilaterali.
Ma non basta. Nel giorno in cui l’Ue spargeva retorica sul controvalore di assets russi già congelati in ossequio alle sanzioni, la banca a controllo statale russa VTB Bank PJSC- secondo istituto del Paese – apriva la sua prima filiale in Iran. Il tutto senza dimenticare come, a detta della stampa autorevole, la stessa governatrice della Banca centrale russa fosse pronta ad abbandonare il suo ruolo per protesta. Dopo un anno, è ancora a suo posto. Saldamente. E, anzi, gira il mondo in vena di de-dollarizzazione. Con le spalle implicitamente coperte dalla Cina. Guarda caso, qual è l’ultima proposta di Volodymir Zelensky, ovviamente giustificata dalla pioggia di droni russi su Kiev? Sanzioni contro l’Iran per 50 anni. Ma guarda le coincidenze.
Ed eccoci al grafico.
In questo contesto, scopriamo che gli hedge funds non sono mai stati più pessimisti rispetto al prezzo del petrolio da 12 anni a questa parte. Già, occorre andare al 2011 per trovare un dedalo di posizioni short simile a quello attuale attraverso una combinazione di vari contratti petroliferi. Tradotto, smart money e altri non-commercial traders prezzano una recessione imminente e drastica con conseguente calo della domanda di energia globale. Tanti saluti al soft landing. E quindi? Quindi, se qualcuno avesse avuto l’ardire di mettere il naso nelle cronache del Qatar Economic Forum, avrebbe scoperto come il ministro saudita per l’Energia, interpellato al riguardo, abbia invitato gli hedge funds a stare molto attenti con le loro mosse. “Watch out”, il termine utilizzato. Una minaccia più che un monito.
Il motivo? Basterebbe infatti che l’Opec tenesse fede alla sua promessa di taglio della produzione, magari inviando un segnale a sorpresa – anche solo tattico – di ulteriori limitazione, per scatenare una margin calls che porti a chiusure immediate e forzate di quella messe di posizioni short. Facendo volare il prezzo del greggio. E cosa accadrebbe alle prospettive inflazionistiche e alle conseguenti scelte monetarie delle Banche centrali occidentali, in vista dell’autunno e della stagflazione? Auguroni.
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