Dunque, la questione del caro-bollette è talmente urgente da poter essere rinviata alla prossima settimana. Il Consiglio dei ministri di ieri aveva ben altro a cui pensare: la riforma del Csm. Argomento assolutamente vitale per un Paese come l’Italia, dove la farraginosità della giustizia è componente di criticità fondamentale per l’economia, ad esempio nel tenere alla larga gli investitori esteri. Ma, soprattutto, in cima alla lista delle richieste dell’Ue: ricordate il blitz sulla riforma Cartabia dello scorso luglio, esiziale per ottenere i primi 25 miliardi del Recovery Fund da Bruxelles?



Ecco la plastica dimostrazione di un commissariamento già in atto: l’agenda del Governo è eterodiretta in base ai desiderata dell’Europa e non alle reali priorità del Paese. Il quale, immagino, sarebbe disposto ad attendere ancora un pochino per vedere razionalizzati gli equilibri fra togati, pur di ottenere un po’ di sollievo sul conto corrente. Le imprese, poi, nemmeno a dirlo. Per alcune la differenza fra oggi e domani può rappresentare il discrimine fra sopravvivere o fallire.



Ma Europa a parte, c’è il problema di come finanziare l’aiuto di Stato al caro-energia. Dove trovare i soldi. Anche in questo caso, in modo tale che a Bruxelles nessuno abbia da ridire sull’eccesso di ricorso al deficit. Servono altri esempio di vita vissuta per dimostrare come, già oggi, l’Italia sia una democrazia a sovranità limitata? In compenso, facciamo di testa nostra sulla gestione della pandemia. Tutta Europa riapre e brucia le tappe nell’eliminazione delle restrizioni, qui invece ci limitiamo a togliere la mascherina all’aperto e a ventilare il benedetto ritiro del green pass, quantomeno per le attività di interesse comune e quotidiano che stanno patendo cali del fatturato da incubo. Qualcuno fa notare come la Francia abbia sì annunciato l’eliminazione del passaporto vaccinale ma solo dal 31 marzo e non subito. Vero, peccato che in Francia ad aprile si voti per le presidenziali: quale inquilino dell’Eliseo uscente e di nuovo in corsa farebbe a meno di uno strumento di controllo del dissenso simile, in vista delle urne?



Occorre pragmatismo: con un’inflazione come quella in atto, Emmanuel Macron sta giocando l’accoppiata perfetta. Da un lato promette nuove centrali nucleari come se piovesse, d’altro tiene aperta l’opzione sanitaria per tacitare la piazza, in caso i Gilet gialli o qualche loro emanazione decidessero di entrare in campo direttamente nella fase finale del campagna elettorale, stile camionisti canadesi. Qui, invece, tutto stagna. Anzi, imputridisce. Perché a fronte di risultati finanziari da record, Pfizer ha deciso di licenziare 130 lavoratori dello stabilimento di Catania. E ricorrendo al sadismo tech più puro per farlo: annuncio e poi attesa dei nominativi delle teste tagliate tramite WhatsApp.

Il Governo ha aperto bocca? Ovviamente no. E come potrebbe un esecutivo che ha lasciato campo operativo libero al Cts fino a oggi? Ve li vedete i vari membri di Commissioni, Istituti superiori e Soviet sanitari assortiti alzare la voce contro Pfizer? In compenso, il ricatto vaccinale sugli over-50 è fallito. Così come la corsa alla terza dose. Un tracollo dopo le prime due settimane da record. La gente è stanca. Stanca di pareri scientifici talmente granitici da cambiare ogni giorno, stanca di continue promesse di ritorno alla normalità cui non seguono mai i fatti, stanca dell’assenza di un piano strategico di ripartenza: l’Italia è una Repubblica fondata sul vaccino. Punto. Nel frattempo, Delta Airlines si prepara ad acquisire ITA. Monte dei Paschi attende che l’Europa decida tempi e modi dell’uscita dello Stato. Saipem testa il terreno per l’aumento di capitale necessario. Una settantina di crisi aziendali attendono risposta sui tavoli di Mise e Lavoro. Tim cerca un’alternativa a Kkr, Generali si prepara a uno showdown di primavera che mostrerà i reali assetti dei (presunti) nuovi poteri forti italiani. E lo spread sale. Il debito pure. L’economia reale arranca.

L’inflazione scenderà o il peggio accompagnerà il Paese lungo tutta la ripartenza di primavera? Difficile prevederlo. Nel senso che il dato CPI americano è ulteriormente esploso al massimo da 40 anni e le prezzature di mercato oggi segnalano qualcosa come 7 ritocchi al rialzo dei tassi attesi per l’anno in corso: se questo sarà lo scenario, davvero la Bce potrà attendere fino a ottobre per il primo rialzo? La realtà è tanto semplice quanto distorta. Nel senso che l’importante è tenere sottocchio la rincorsa fra prezzi e salari: fino a quando non si va in overdrive in quella dinamica, in effetti si può attendere. Ovvero, evitare rialzi troppo bruschi o troppo concentrati nel tempo. Perché in pieno rallentamento economico, una stretta monetaria choc comporta sempre recessione.

Ma qui non siamo solo in un quadro tipico da policy error, stile 2008 o 2018. Qui abbiamo a che fare con un’inflazione da supply chain, un’inflazione reale da domanda/offerta e non da speculazione. La Banca centrale, quindi, rischia di andare a operare su un contesto di cui non ha il controllo diretto. E con metodi poco ortodossi. E, molto probabilmente, ancor meno efficaci. Perché James Bullard, numero uno della Fed di St. Louis, giovedì ha squassato il mercato, parlando chiaramente della necessità di un intero punto percentuale di rialzo dei tassi entro luglio e di una prima mossa da 50 punti base immediati entro marzo. Aggressività allo stato puro. Ma, appunto, fortemente a rischio di epilogo sterile in fatto di contrasto all’inflazione. In compenso, in grado di far deragliare del tutto la ripresa.

Avete notato come la Cina sia sparita dai radar da qualche tempo a questa parte, in contemporanea? Pensate che Pechino non stia facendo nulla, che attenda immobile le mosse altrui? Andate a vedere gli ultimi dati dell’impulso creditizio e capirete al volo quanto sia alto il rischio di una recessione globale da cortocircuito monetario. E l’Europa, come sta attrezzandosi allo scenario da semi-apocalisse che abbiamo di fronte? Con la colomba delle colombe che, di colpo e per convenienza di politica interna del suo Governo a Berlino, si è tramutata in falco. Isabel Schnabel, braccio destro di Christine Lagarde e un passato alla Bundesbank, da qualche giorno ha cambiato nettamente tono rispetto all’approccio espansivo della Banca centrale europea. Non fosse peccato pensare male, verrebbe da dire che sta operando sotto dettatura di Joachim Nagel. E tanto per mettere in prospettiva l’impatto concreto di quel cambio di approccio, questi due grafici mostrano il drastico calo di controvalore del debito sovrano europeo con rendimento negativo dalla scorsa estate a oggi e, soprattutto, nella singola giornata di giovedì 3 febbraio, quando il board Bce aprì di fatto a un probabile rialzo del tassi.

Christine Lagarde, in compenso, ormai conta con il due di picche. Forse meno. Il board Bce è completamente spaccato, falchi da un parte e cosiddetti periferici in ordine sparso dall’altro. Difficile pensare che Francoforte, sponda Buba, possa temere l’opposizione in seno al board di Francia, Italia e Spagna. Non fosse altro perché ognuno di quei tre Paesi è alle prese con una crisi da inflazione tale da non permettere mosse azzardate in sede di Eurotower. Anzi, diciamola tutta e diciamola chiara: siamo noi e Madrid a dipendere totalmente da Pepp e sua eventuale prosecuzione sotto altra forma, Parigi meno. Molto meno. Qualcuno sta giocando sporco, dopo averci stampato sulla guancia un bacio di Giuda in favore di telecamere al Quirinale non più tardi dello scorso 26 novembre?

Attenti al prossimo board, molto a ridosso delle presidenziali francesi. Se c’è stata un’operazione da Cavallo di Troia, quello sarà il momento in cui lo si scoprirà. Nel frattempo, giochiamo alla riforma del Csm. Un po’ come l’orchestra sul ponte del Titanic che continuava a suonare.

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