Tranquilli, il Qe perenne non crea inflazione. È soltanto un’impressione. Transitoria, oltretutto. D’altronde, cosa volete che possano determinare qualche triliardo di dollari in massa monetaria M2 in libera uscita ai trend dei prezzi? Nulla. Chi ha studiato e insegnato economia fino a oggi, d’altronde, era un cretino. Mica ci aveva pensato alla geniale intuizione – oltretutto, finalizzata proprio alla lotta contro le diseguglianze – di convogliare quel flusso di liquidità nei mercati azionari, affinché garantissero profitti miliardari alle corporations senza lo sgradevole effetto collaterale di un’esondazione nell’economia reale che facesse impennare il costo di pane e carne. Meno male che adesso ci sono i monetaristi della MMT, gli stregoni delle Banche centrali e gli autarchici fuori tempo massimo.



Sarà in nome del new normal, quindi, che da ieri la Cina ha deciso di imporre una politica di controllo statale dei prezzi di grano, mais e carne di maiale, al fine di mantenerli stabili rispetto al potere d’acquisto delle famiglie. Eh già, Pechino non si fida dei novelli Keynes e dopo una lettura dell’indice dei prezzi alla produzione, PPI, al +9,0% ha deciso di intervenire. Forse perché, oltre ad aver battuto al rialzo anche le attese già poco ottimistiche del +8,5%, il dato finale si è tradotto nel più alto dal settembre 2008, ovvero da un momento della storia che dietro l’angolo preservava una sorpresa chiamata Lehman Brothers? O forse perché lo spread fra CPI e PPI è arrivato al massimo addirittura dal 1993, come mostra questo grafico?



L’ho detto in tempi non sospetti e lo ripeto oggi: per chi ha spacciato come risolutiva al mondo la ricetta – degna di un venditore di pozioni magiche da spettacolo itinerante nel Far West – dello stampare moneta come rimedio a tutte le sciagure, servirebbe una Norimberga. Perché i danni che stiamo per pagare saranno inestimabili. E attenzione, perché esattamente come per l’impulso creditizio, la Cina solitamente muove le sue dinamiche macro con 7-9 mesi di anticipo sull’Occidente: pensavamo che il 2022 sarebbe stato l’anno della grande ripresa post-pandemica? Bene, prepariamoci al rischio tutt’altro che peregrino dell’arrivo della stagflazione.



Per carità, i geni attualmente al timone dell’economia ci diranno che l’ebollizione dei prezzi si combatte con i tassi addirittura in negativo e con un aumento degli acquisti obbligazionari, tanto per far contenta Wall Street. Magari, spingeranno addirittura Fed e Bce a seguire l’esempio giapponese, acquistando Etf e singoli titoli azionari. Ormai vale tutto, il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Ma cari lettori, vi invito a riflettere: noi non siamo la Cina. Formalmente, viviamo in una democrazia. E se il mercato, ipocrita com’è, prezza positivamente un intervento da governo autoritario come quello di Pechino, tanto poi si pulisce la coscienza appendendo in salotto la bandiera tibetana, se per caso un’economia avanzata occidentale dovesse soltanto ventilare l’ipotesi di controllo su prezzi, allacciate le cinture. Sarebbe la sconfessione – nei fatti e non a parole – della presunta transitorietà dell’inflazione, mantra finora bevuto da indici e rendimenti per quieto vivere e ottimismo auto-alimentante. E, soprattutto, sarebbe la conferma più drammatica del fatto che il Qe non è un pasto gratis, né un medicinale senza controindicazioni: di fatto, un disastro.

Sarà per questo che Deutsche Bank ha visto i suoi migliori economisti – David Folkerts-Landau, Peter Hooper e Jim Reid – rompere gli indugi e scrivere un report dal titolo Inflation: The defining macro story of this decade? La tesi è tanto semplice, quanto allarmante: l’attuale sfida posta dalla dinamica globale dei prezzi in contesto espansionistico strutturale è la maggiore degli ultimi 40 anni, per il semplice motivo che si è deciso di credere che inflazione e sostenibilità del debito non solo fossero tematiche scollegate fra loro, ma che non rappresentassero proprio un problema. La prima di fatto era scomparsa, il secondo un falso mito. Il debito pubblico misura, di fatto, il grado di ricchezza di un Paese: ricordate questa idiozia, ci fu un periodo non troppo lontano in cui era di gran moda. Anche su questo sito, purtroppo. Non esistevano problemi, tutto si risolveva stampando e acquistando e la risposta geniale alle disfunzionalità croniche di un indebitamento record come quello italiano era l’aumento delle emissioni dello stesso, sfruttando il doping della Bce che schiacciava artificialmente quasi a zero il premio di rischio corrisposto dal Tesoro. Era un mondo fantastico. Peccato fosse frutto di un’allucinazione collettiva. Che oggi è terminata, bruscamente.

Ecco la conclusione dei tre economisti: «Potrebbe volerci un po’ di più, fino al 2023 forse. Ma alla fine l’inflazione strutturale emergerà. E anche se la pazienza che caratterizzerà nel frattempo l’operato espansionista della Banche centrali potrebbe risultare formalmente ammirabile, stante la finalità sottesa di spostare le priorità della Fed verso tematiche di scopo sociale, negare i livelli preoccupanti dell’inflazione a livello globale lascerà le economie del mondo sedute su una bomba a orologeria». Ora, preparatevi: qualche genio dirà che sono i soliti tedeschi apocalittici, ossessionati dal fantasma di Weimar. Quante volte, d’altronde, abbiamo sentito quest’altra idiozia? Ma stavolta la questione si fa seria. Guardate il livello di distorsione delle dinamiche occupazionali in atto negli Usa, a causa dell’abuso di programmi federali di sostegno che sono – de facto – i prodromi dell’helicopter money, come mostra il grafico e la sua sconfortante dinamica da eccesso di offerta?

Guardate cosa sta accadendo con le criptovalute e i loro alti e bassi, tutti finalizzati a un effetto flip-flop che distragga i mercati da criticità vere come quelle denunciate da Deutsche Bank, nell’attesa di una nuova emergenza da stamperia post-Covid. Guardate la Borsa, capace globalmente di sfondare un record al giorno, mentre le nazioni sprofondano nel debito sistemico. Ormai è tutto scollegato, tutto riconducibile a distorsioni e manipolazioni. Degno epilogo di un mondo che pensa di risolvere tutto schiacciando un tasto e stampando soldi dal nulla. Lo ripeto: Norimberga pubblica e impietosa, unica speranza prima che quella che appare già oggi la sfida macroeconomica più grande dal periodo Reagan-Volcker degli anni Ottanta si tramuti in un altro 1929 reloaded. Come accadde nel 2008, quando tutti pensavano che cartolarizzare immondizia immobiliare mischiando i rating tramutasse per magia i bond ottenuti in assets AAA. E, peggio ancora, che per rimediare a quel disastro bastasse stampare e comprare. Ovvero, aumentare il debito.

Stavolta, se qualcosa dovesse sfuggire dal controllo, preparatevi: sarà molto ma molto peggio del 2008. Chi dovrete ringraziare, lo sapete. Fin da ora. Ci sono decine e decine di illuminanti articoli e interventi al riguardo, facilmente rintracciabili con un semplice e comune motore di ricerca. Ma penso che, da oggi in poi, certe spacconerie perderanno di intensità e frequenza. Alcuni dei principali fautori di quel periodo di cialtronaggine scellerata – più svelti e furbi degli altri nel fiutare l’aria, forse perché abituati a questa pratica per riuscire a restare a galla – non a caso hanno smesso da tempo di parlare di economia, formalmente loro materia di formazione e professione. E si sono gettati anima e corpo sulla virologia. O sulla politica estera. Penso (e spero) che in molti li seguiranno in questa conveniente conversione forzata.

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