C’è un’America che non finisce mai nei servizi dei corrispondenti e degli inviati, impegnati in questi giorni nel rush finale della campagna elettorale per le presidenziali del 3 novembre. Eppure, abbiamo visto e sentito di tutto. La New York spenta dal Covid e distante dalla definizione di City that never sleeps che ricordavamo nelle canzoni di Frank Sinatra, la Rust Belt della classe operaia che nel 2016 ha reso possibile il “miracolo” di Donald Trump, la California delle start-up e degli incendi devastanti, il Mid-West agricolo e produttivo fino a Miami e al suo appeal caraibico, motore del voto dei latinos. Nessuno, però, ha avuto l’intuizione di piazzarsi di fronte alla sezione fallimentare di un tribunale del Paese. Uno qualsiasi, dall’Ohio al Michigan all’Oregon. Non fa differenza, stante l’elenco infinito di ricorsi al Chapter 11 che ha caratterizzato gli ultimi trimestri e che è letteralmente esploso nel corso del lockdown.
Peccato, sarebbe stato istruttivo. E non tanto e sono solo per sfatare un po’ di miti rispetto agli interventi salvifici ed esemplari di Fed e Treasury in difesa dell’economia reale. Anche per altro, per un qualcosa di più preoccupante. E sistemico. Perché un fallimento non porta con sé soltanto libri da consegnare al giudice, linee di credito da ristrutturare e poi onorare, tagli occupazionali e cambi di governance e management: c’è il debito passato con cui fare i conti. E spesso, paradossalmente, a pagare il prezzo maggiore sono gli investitori che a quel debito avevano dato fiducia, acquistandolo sotto forma di obbligazioni. Bene, stando a un inquietante reportage di Bloomberg, oggi in America il bondholder medio si reca nelle aule di tribunale con una certezza nel cuore: se tutto andrà bene, recupererà l’1% di quanto investito. Ovviamente, parliamo di una categoria particolare di detentore obbligazionario: il cosiddetto unsecured creditor. Sempre più diffusa, però.
Bene, per lui la sentenza è scritta prima ancora che il giudice si sieda in aula: “Se fino a poco tempo fa l’aspettativa media era quella di recuperare attorno ai 40 centesimi sul dollaro da un processo di bancarotta e default sui bond, oggi se tutto va bene si va a casa avendo in tasca pochi pennies”, sentenzia il servizio, dati alla mano. Qualche esempio? Men’s Wearhouse ha presentato domanda di Chapter 11 lo scorso agosto e oggi il suo bond opera in trading sotto i 2 centesimi sul dollaro. Per non parlare di J.C. Penney Company, la quale dopo essere andata a zampe all’aria ha confezionato una sgradevole sorpresa per i detentori di protezione sul default: convocata un’asta per i possessori di cds, ecco che si è scoperto come il debito detenuto dalla clientela retail prezzasse qualcosa come 0,125 centesimi sul dollaro. Questo grafico mostra plasticamente come le aste per credit default swaps quest’anno abbiano registrato il livello più basso in assoluto di tasso di recupero.
Stando a calcoli di Barclays, il valore medio per il debito non assicurato delle aziende cadute in disgrazia viaggia nelle aste di derivati sul credito a qualcosa come 3,5 centesimi sul dollaro, il tutto contro una media di 23,4 centesimi che mediamente si poteva sperare di ottenere nell’arco temporale fra il 2005 e il 2019. Di fatto, una sentenza preventiva e lapidaria: il perdere tutto quanto investito, ormai, per i detentori obbligazionari di cosiddetto cheapest debt è la norma. Ma non basta. Perché se il rischio è connesso con la stessa attività finanziaria di un singolo e l’America da questo punto di vista non pare tollerare ignoranza in materia da parte di chi lamenta presunte frodi, questa dinamica non nasce come figlia della crisi da Covid. Esattamente come le storture di anni e anni di azzardo morale da Qe perenne, fatte emergere e deflagrare dai lockdown, ma conseguenze legittime di manipolazioni ben antecedenti al virus, così questa dinamica di tosatura pressoché totale del parco buoi obbligazionario ha radici ben solide e protagonisti molto ben delineati. Per l’esattezza, l’intero giochino nasce in grande stile nella primavera del 2016 e si basa su tre dinamiche.
Primo, la disconnessione sempre più palese e stridente fra fondamentali e prezzi degli assets resa possibile dalla costante manipolazione dei mercati posta in essere dalla Fed. Secondo, il livello record di stratificazione di debito su debito da parte delle aziende, la maggior parte del quale cartolarizzato per meglio mischiare le carte e confondere gli investitori meno attenti. Terzo, il sonno dei regolatori di fronte al fenomeno degli accordi covenant-lite che, mano a mano, hanno tolto sempre più garanzie e protezione agli investitori. I quali, oggi, pagano un prezzo doppio alla crisi, partendo da un presupposto di affarone che pensavano di avere fatto soltanto pochi anni o trimestri fa, acquistando quei bond retti da esotiche formule che garantivano rendimenti più alti della media. E quest’ultima dinamica appare la più inquietante, in prospettiva. Questo grafico mostra plasticamente l’avvento e la crescita dei cosiddetti covenant-lite nell’universo dei leveraged loans statunitensi senza debito subordinato.
Cosa sia il covenant è presto detto: si tratta di un accordo che intercorre tra un’impresa e i suoi finanziatori, il quale mira proprio a tutelare questi ultimi dai possibili danni derivanti da una gestione eccessivamente rischiosa dei finanziamenti concessi. L’accordo prevede clausole vincolanti per l’impresa, pena il ritiro dei finanziamenti o la loro rinegoziazione a condizioni meno favorevoli. Dal punto di vista del finanziatore, il covenant serve quindi a ridurre il proprio rischio di credito, ovvero l’esposizione patrimoniale all’insolvenza del creditore di fondi. Covenant-lite, di fatto, significa con meno tutele. Fino praticamente a non averne del tutto. Direte voi: solo un pazzo accetta una condizione di rischio potenziale simile. Vero. In un mondo normale, però. Perché nel new normal dei rendimenti obbligazionari a zero o poco più, chi naviga in quel mare magnum cerca come Diogene con il lanternino ogni occasione per strappare qualche punto base di yield in più. Tutto va bene, tutto è accettabile. Per quale motivo, avidità a parte? Perché il presupposto è quello del Qe perenne, del backstop sistemico della Banca centrale al mercato e alle sue dinamiche, più o meno distorte che siano. La logica è come quella relativa alla prima ondata di Covid della scorsa primavera: andrà tutto bene.
La realtà ha parlato una lingua differente. Tutti, a partire almeno dal 2016, erano consci che la crescente disconnessione fra fondamentali dell’economia e prezzi degli assets era frutto di una crescente bolla da manipolazione, ma hanno fatto finta di niente: emittenti, sottoscrittori, investitori, regolatori. Tutti muti, tutti ciechi e tutti sordi. Come le scimmiette. Oggi, però, qualcuno paga il conto. E salato, perché portare a casa 4 centesimi sul dollaro significa aver gettato dalla finestra il proprio intero capitale investito. Se sei un hedge fund, lo metti in conto e provi a rifarti, salendo su un’altra giostra. Se sei John Smith o Franco Rossi, probabilmente finisci nei guai. E di quelli seri. E qual è la fregatura ulteriore? Che spesso e volentieri i covenant-lite vengono venduti come accordi secured, assicurati, mentre quando la situazione si mette male e alla prova dei fatti si mostrano per ciò che sono realmente: junk bonds non assicurati. L’unica differenza? Il coupon flottante che garantiscono. Finché non vanno zampe all’aria, ovviamente. Per il resto, soltanto maquillage, rossetto sul maiale. Esattamente come i CLO e tutta la paccottiglia cartolarizzata e venduta con rating stellari dai fondi di investimento, pur essendo soltanto un mix di bond mischiati in modo tale da mostrare al gonzo di turno la parte assicurata e con valutazione di credito massima. Scava scava, alla prima crisi di liquidità seria, saltano fuori le magagne. E, magari, si scopre che il 70% di quel CLO è basato su rating non-investment grade e su un basket di debito esposto ai settori più rischiosi o in crisi del mercato: ecco spiegati certi rendimenti così allettanti.
Signori, non esistono pasti gratis, mettetevelo in testa. Il problema è che, al netto di un mondo come quello della finanza, dove certi castelli di carte e certi magheggi basati sull’illusione sono sempre esistiti (schema Ponzi in testa), qui l’operazione è stata di massa. E con una regia, per quanto apparentemente involontaria, chiara e palese: la manipolazione strutturale di mercato operata da un regime di free market formale ma basato unicamente sulla liquidità creata dal nulla dalle Banche centrali. Pensavate che Bce, Fed e soci facessero danni solo taroccando artificialmente gli spread sovrani? Ricredetevi, la malattia è andata a colpire molto più in profondità. E attenti, perché come accaduto con i subprime, dopo il paziente zero americano toccherà all’Europa fare i conti con le esotiche sigle che campeggiano a dismisure in certi Level 3 dei bilanci bancari, ormai tramutati in Patrie dei titoli illiquidi. In Francia, non a caso, sono parecchio nervosi ultimamente.
Signori, i nodi stanno venendo al pettine, piaccia o meno. Ovunque, negli Usa come in Europa come – temo – sui mercati emergenti, i cui istituti di credito commerciali si sono stracaricati di debito per finanziare i deficit ed evitare che le Banche centrali dovessero lanciare dei Qe tout court. Ecco a voi, cari lettori, uno spoiler minimo e striminzito di quali siano le conseguenze del meraviglioso mondo del debito allegro e dell’helicopter money che qualcuno prefigura come salvezza dell’umanità. La logica che sottende quei default corporate Usa e i loro strumenti di supposta protezione vale per tutto, è archetipo e paradigma di un mondo senza più premio di rischio, indifferenziato e livellatore verso il basso in nome di un presunto egualitarismo emergenziale che necessita di ciclici allarmi per aumentare sempre di volume e sistemicità. Ormai, siano in un tunnel. E la via d’uscita appare decisamente lontana.