A differenza di altri (molti), ho detto fin da subito come sarebbe andata a finire la pantomima del Pnrr e del Recovery Fund. Un sarchiapone, esattamente come la creatura immaginaria delle gag di Walter Chiari. Perché i pasti gratis non esistono, figuratevi uno da 209 miliardi. E ora, il conto è arrivato a tavola. L’unica differenza, esiziale e sostanziale? Rispetto al passato, oggi a capo del Governo non c’è un uomo di partito che deve rispondere a logiche di parte ed elettorali. Ma il suo contrario.



A palazzo Chigi è stato messo un uomo con l’unico compito di fare esattamente ciò che ora l’Europa ci impone di fare a livello di riforme. E con i tempi di Bruxelles. Di fatto, l’Ue ha imposto l’arbitro. E anche i guardalinee e l’intero pacchetto di addetti al VAR, perché dopo il fuoco di fila di dichiarazioni degli ultimi giorni, penso sia chiaro a tutti per quale motivo Paolo Gentiloni sia stato nominato commissario agli Affari economici. Un’unica ragione, certamente non quella di particolare competenza in materia: levare all’Italia, dopo la trincea di palazzo Chigi, anche l’arma tattica utilizzata da sempre: l’alibi dell’Europa cattiva, rigorista e a guida tedesca. Come si fa a tacciare di appartenenza al famigerato fronte del Nord uno che è stato presidente del Consiglio italiano?



Stavolta siamo davvero in trappola. E attenzione, perché l’eccessiva eco che si sta offrendo mediaticamente alla pagellina della Commissione Ue rischia di farci totalmente ignorare un fatto ben più che simbolico accaduto giovedì scorso. Quel giorno, infatti, va ricordato per due avvenimenti. Primo, l’impietosa mossa di Josep Borrell di prendere il cosiddetto piano di pace italiano per l’Ucraina e utilizzarlo come fermo per sistemare una gamba traballante del comodino, un po’ la replica della mossa di Mario Draghi con il piano di Paolo Savona sulla riforma della Bce. Secondo, gli emissari del Fondo monetario internazionale lasciavano il nostro Paese dopo la visita di ricognizione legata al programma di vigilanza bilaterale. Un atto rituale, un check-up programmato da tempo. Ma lo facevano inviando anche loro una bella missiva al Governo, il cui contenuto sembrava scritto con la carta carbone rispetto a quello del diktat di Paolo Gentiloni di pochi giorni prima. Ovvero, diminuire il debito (da portare al 135% del Pil entro il 2030), evitare qualsiasi ulteriore scostamento di bilancio che crei nuovo deficit, generare e mantenere un avanzo primario e porre in essere ampie riforme strutturali, incluso un ampliamento della base imponibile con effetti neutri per le finanze pubbliche, per rendere il sistema fiscale più equo. 



Ma non basta. Quanto al superbonus al 110%, per gli ispettori di Washington rafforzare i controlli esistenti limiterebbe i rischi di superamento delle spese che potrebbero verificarsi a causa della domanda molto elevata. Mentre riguardo alla tassa sugli extra profitti, per evitare distorsioni involontarie, l’imposta sugli utili inattesi delle società energetiche dovrebbe basarsi sull’intera gamma di elementi che determinano i loro profitti. Insomma, il Fmi ci ha dettato l’agenda. Assolutamente in linea, appunto, con quanto fatto pochi giorni prima dalla Commissione Ue tramite il suo commissario. 

Chi manca all’appello, tanto per ricostituire la mitica troika del biennio 2010-2011? Ovviamente, la Bce. E il rischio è che già al board di giugno la Banca centrale lanci il terzo strike che eliminerà il battitore Italia. Come accade nel baseball. E la reazione di venerdì scorso del nostro spread all’apertura tanto sconsolata quanto ineludibile di Ignazio Visco a un graduale aumento dei tassi già dall’estate parla chiaro al riguardo. 

Ma attenzione all’unico, enorme tallone d’Achille che presenta la strategia apparentemente perfetta dell’Europa e di Mario Draghi per costringere finalmente l’Italia a dar seguito con i fatti alle promesse contratte in sede di esborso dei fondi. Ecco come sempre il Fondo monetario descrive il Reddito di cittadinanza: Il recente rafforzamento dei requisiti di accettazione del lavoro e dei collegamenti sono un passo positivo ma per evitare che disincentivi al lavoro, l’uscita da queste prestazioni in risposta al reddito da lavoro dovrebbe essere graduale, mentre il livello delle prestazioni è elevato rispetto al costo della vita in alcune parti del Paese. 

L’ultima frase è fondamentale: Mario Draghi sta sottovalutando il Nord. Anzi, lo ha proprio dimenticato. Perché non basta fare una visita a una scuola nel veronese per tacitare la crisi che sta montando nel territorio più produttivo del Paese: servirebbero risposte e fondi, i quali invece o non ci sono o vanno altrove. Inutile negarlo: la kermesse di Sorrento e il suo tacito millantare un morphing del Pnrr nella nuova Cassa del Mezzogiorno è suonato come un insulto alle orecchie di migliaia di piccoli e medi imprenditori che già oggi rischiano quotidianamente la chiusura, non fosse altro per il caro-energia. E certamente non saranno i 200 euro del Governo a rischiarare l’orizzonte. 

Il Nord rischia di entrare in una spirale recessiva devastante, poiché direttamente legato ai destini economici di quella Germania di cui è subfornitore e che, a detta del suo ministro delle Finanze, ormai sta flirtando con l’ingresso ufficiale in stagflazione. Detto fatto, Berlino ha mosso le sue pedine: nessuno ve lo ha detto, ma sempre venerdì scorso il Governo Scholz ha bocciato sul nascere l’ipotesi della Commissione Ue di una nuova emissione congiunta di debito da 15 miliardi di controvalore per un primo programma di ricostruzione dell’Ucraina. Con un’inflazione come quella appena registrata ad aprile, la Germania ha tolto preventivamente dal tavolo qualsiasi ipotesi di mutualizzazione. E preme per un aumento immediato dei tassi, spalleggiata in tal senso dal governatore della Banca centrale olandese, Klaas Knot, a detta del quale si potrebbe pensare a un primo ritocco da 50 punti base e non solo 25, se per caso da qui a luglio le dinamiche dovessero peggiorare. E dove si terrà il board dell’8-9 giugno della Bce? In trasferta in Olanda, come ogni anno. E guarda caso, di colpo la Francia gela ogni entusiasmo filo-ucraino e anti-russo e avvisa Kiev di prepararsi a una quindicina di anni di anticamera prima di poter entrare nell’Ue. Forse anche 20. Tradotto, sta arrivando la tempesta reale e quindi l’energia russa serve come l’aria. Solo l’Italia continua a giocare a Rambo. 

Attenzione, quindi, alla reazione di un Nord sull’orlo della contrazione e ucciso dalle tasse e dal caro-energia: perché oggi quel territorio è senza una rappresentanza politica chiara e connotata, in grado quindi di incanalare e parlamentarizzare quella rabbia. Che, come impone lo stile di quelle latitudini, non trascende in lamentele e piagnistei ex ante. Ma quando esplode, fa tremare la terra. E non manca molto.

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