In attesa di valutare la natura da rimbalzo del gatto morto garantito al titolo di New York Community Bancorp dalla nomina del nuovo Ceo, a sua volta resasi necessaria dal declassamento a junk operato da Moody’s, ecco che – come recitava senza tanti giri di parole l’articolo di Bloomberg pubblicato mercoledì – US commercial real estate contagion is now moving to Europe. Ovvero, la crisi immobiliare 2.0 americana sta cominciando a mietere vittime anche nel Vecchio Continente, dopo aver reclamato la prima in Giappone con il tonfo di Aozora Bank.



Nella fattispecie, tanto per far piovere un po’ sul bagnato, nella già tribolata Germania dell’era Scholz. Patria della bolla immobiliare garantita da tassi a 0 infiniti e già alle prese con la bancarotta della sussidiaria di Signa e l’esposizione degli istituti di credito proprio verso l’ex colosso immobiliare austriaco.



L’immagine mostra l’andamento da kamikaze del titolo azionario di Pfandbriefbank dell’ultimo mese, un rotondo -15%. Che rischia di peggiorare rapidamente dopo che Morgan Stanley ha invitato i suoi clienti a vendere i senior bonds del gruppo, giudicati al pari della kriptonite per Superman proprio a causa proprio dell’esposizione al Cre statunitense.

Il bond Tier 2 da 150 milioni della banca è letteralmente crollato di prezzo, aggirandosi ora attorno a 52 centesimi sull’euro e segnando il nuovo record di calo one-day. Non va meglio l’AT1 da 300 milioni, oltretutto quest’ultimo ontologicamente messo a rischio dalla sua natura di convertibilità in equity. Ovvero, effetto palla di neve al quadrato. Auto-alimentante. Ma non basta. Nel mirino di Bloomberg sono finiti anche un AT1 da 750 milioni di Landesbank Baden-Wuerttemberg e una note da 300 milioni di Aareal Bank AG.



E se la BaFin, l’ente di vigilanza del mercato tedesco, si è affrettata a rendere noto il suo stretto monitoraggio della situazione (caso Wirecard docet), ecco che questi altri due grafici si sostanziano come i proverbiali chiodi nella bara per il sistema Germania.

Il dato della produzione industriale di dicembre reso noto mercoledì ha infatti segnato un -1,6% su base mensile contro attese di -0,5%, mentre su base annua -3% contro previsioni di -2,4%. E il dato scorporato per voci (su base mensile) fa ancora più impressione. Industria chimica -7,6%, costruzioni -3,6%, industria ad alto consumo energetico nel suo complesso -5,8%, manifattura di gomma, plastica e prodotti minerali (ex metalli) -4,4%, manifattura di computer e prodotti elettronici -2,2% e tessile -1,4%. Insomma, profondo rosso. Macro. Mentre il Dax festeggia ormai con cadenza quotidiana i suoi multipli. E la seconda immagine ci dice che anche il settore dell’ingrosso vede nubi all’orizzonte. Molto e scure nubi.

Ora, stante il volume dell’interscambio commerciale, l’economia italiana – mediamente e su base storica – segue a tre mesi i trend di quella tedesca. E il fatto che sempre mercoledì, mentre si recitava il de profundis della fu potenza industriale del Vecchio continente, dal distretto del lusso di Firenze arrivasse la notizia di ordinativi di pelletteria da parte delle griffe totalmente fermi e di 4.000 lavoratori già in cassa integrazione, rappresenta solo uno spoiler. Attenzione, perché il trend dell’industria è come l’interbancario: congela all’improvviso. Non invia telegrammi, solo spoiler. Da cogliere al volo. Perché attenzione, il Commercial real estate (Cre) statunitense rischia – paradossalmente – di replicare alla perfezione l’effetto a detonazione lunga dei subprime. Ovvero, fare più danni all’estero che in patria. Anche perché, al netto dei rischi da controllare, negli Usa stanno utilizzandolo per ottenere un primo bersaglio grosso nel percorso verso taglio dei tassi e ritorno del Qe.

Parlavamo prima del nuovo corso della New York Community Bancorp, travolta appunto dall’esposizione a Cre. Quanto durerà la sua agonia, più o meno di quella di Silicon Valley Bank o Signature Bank? O, magari, quella che appare un’eutanasia annunciata potrebbe tramutarsi nel coup de théâtre necessario all’unica opzione che Fed e Tesoro hanno di fronte a loro: rinviare lo stop del Btfp revisto per l’11 marzo. Nella giornata di mercoledì e dopo un -60% da inizio mese, il rimbalzo del gatto morto del titolo di New York Community Bancorp pareva durato poco. Le rassicurazioni da whatever it takes del nuovo Ceo, Sandro DiNello, non sembravano aver evitato che il titolo precipitasse fino a -12%. Dopo aver azzerato il -16% del pre-market e virato addirittura in positivo, proprio in virtù dell’attesa di un annuncio che sbloccasse l’impasse. Ma quando il nuovo Ceo ha dichiarato che l’istituto ha registrato virtually no deposit outflow from retail branches, tutti si sono concentrati solo su quel particolare non richiesto. Ok, nessuna fuga di depositi dalle filiali. Ma online?

Poi, a due ore dalla chiusura delle contrattazioni, questo: un colossale short squeeze che portava il titolo a chiudere a +6,67%. Sulla base di cosa, a parte il meccanismo auto-alimentante di unwind delle posizioni ribassiste?

Dubbio che profuma di certezza e olezza di speranza. Ovvero, si utilizzerà il weekend del Super Bowl in arrivo – durante il quale l’americano medio non si accorge nemmeno se la casa sta andando a fuoco – per dar vita a una riedizione riveduta e corretta del fine settimana del 13-14 settembre 2008? Magari ancora nella sede della Fed di New York, tanto per vendere al pubblico un effetto dèjà vu molto hollywoodiano? Ma questa volta, il Sistema si mostrerà magnanimo. E salverà Nycb. Più che altro, metterà in sicurezza la sua esposizione al Commercial real estate, al fine di evitare un contagio che potrebbe – questo sì – andare fuori controllo. Ma a quale prezzo, si otterrà questo probabile rinvio (o almeno rimodulazione) dell’addio al Btfp?

La risposta sta in un articolo pubblicato sempre mercoledì da Bloomberg. E in quest’ultimo grafico.

Nel pieno di un diluvio di licenziamenti, JP Morgan Chase ha infatti annunciato 3.500 assunzioni nei prossimi tre anni per le sue 500 nuove filiali. A Boston, Charlotte, Washington, Minneapolis e Philadelphia. In netta controtendenza rispetto a un trend che nel 2009 vedeva circa 100.000 filiali bancarie presenti sul territorio degli Usa contro le nemmeno 80.000 attuali, stando a dati di S&P Global Market Intelligence. Ma anche rispetto alla migrazione generalizzata verso i servizi online: si torna alla filiale. Il perché? Perché le si compra a prezzo di saldo. Lo mostra il grafico: le riserve delle banche regionali sono ormai a livello di insolvenza tecnica e implicita. Già alle 00:01 del 12 marzo. Appunto, filiali a prezzo di saldo. In cambio, cavalieri bianchi a perdita d’occhio fra le Big4, le stesse che si sono caricate ulteriormente di free money federale da spendere in M&A grazie all’arbitraggio proprio da Btfp. E, soprattutto, un contenimento della crisi del Commercial real estate che preoccupa anche i grandi istituti, stante unrealized losses che devono restare tali.

La Fed, poi, ha un residuo di credibilità da tutelare. E l’inquilino della Casa Bianca un’elezione da cercare di vincere. Scommettete che l’idea di fondo, la sorpresa di primavera, sarà quella di far pagare il conto alla vecchia Europa e alle sue banche, un po’ come accadde alle bollette energetiche con le sanzioni alla Russia? La Germania è uno stress test. Da mesi, ormai.

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