Non ci sarà aumento dei tassi fino a quando non avremo inflazione al 2% per almeno un anno. Parola di Richard Clarida, vice-presidente della Fed. In sé, nulla che stupisca. Se non il fatto che il numero due di Jerome Powell abbia sentito il bisogno di puntualizzare questo concetto a poche ore dalla pubblicazione del dato ufficiale dei prezzi al consumo, quasi a voler rassicurare il mercato.
Davvero la lettura CPI era tale da rendere necessario questo intervento? Formalmente, no. Il +0,4% su base mensile di dicembre ha sì segnato il settimo aumento di fila, ma ha comunque portato il dato a a livello annuo al +1,4%, nulla che debba richiedere prese di posizione in modalità pompiere. Tanto più che una delle voci più sensibili, quella relativa alla casa, ha comunque inviato segnali positivi per i cittadini: l’inflazione generale a livello alloggiativo ha infatti segnato un +1,84% su base annua, lettura più bassa dal novembre 2011, mentre quella degli affitti al 2,28% è risultata ai minimi dall’ottobre dello stesso anno. C’è però un problema: se l’inflazione abitativa è ai minimi da dieci anni, come si spiega il prezzo delle case negli Usa attualmente ai massimi da sette con il suo +8%?
Stranezze del mondo fatato del Qe. Capite da soli che, alla luce di rilevazioni simili, le parole di Richard Clarida appaiano come vere e proprie assicurazioni sulla vita: se gli indicatori ufficiali dell’inflazione sono questi, il 2% per un anno intero a livello di Core CPI si raggiungerà forse nel 2035. Forse. C’è però una realtà che sfugge alla narrativa tutta unicorni e cieli azzurri della politica espansiva che non crea distorsioni ma solo un avvenire di prosperità, crescita e giustizia sociale. E ce la mostrano questi due grafici: come potete notare, c’è qualche piccolissimo problema di montante inflazione alimentare. Già oggi.
Ed ecco che Richard Clarida sembra voler subito tranquillizzare tutti: Come Fed, sappiamo cosa fare quando l’inflazione si muove verso l’alto. Di grazia, cosa? Solitamente, si alzano i tassi, al fine di drenare implicitamente la massa di denaro circolante, rendendo più caro il costo dello stesso ed evitando così una spirale di aumenti insostenibili per il potere d’acquisto. Insomma, un mezzo cortocircuito: si giura di non voler alzare i tassi fino a quando l’inflazione non sarà al 2% per un anno, ma se l’inflazione alzasse la testa, la Fed sa cosa fare. Quindi, alzare i tassi. Capite ora perché Oltreoceano, dopo la pagliacciata del Congresso, abbiano sentito il bisogno di mettere in piedi quella ancora più grande dell’impeachment 2.0, unita alla polemica legata a Twitter e Facebook e all’allarme per nuove manifestazioni violente, tanto da aver già schierato a Washington oltre un migliaio di uomini della Guardia nazionale in assetto anti-sommossa? E c’è di più: l’altro giorno, la CIA ha desecretato a sorpresa migliaia di documenti relativi agli Ufo. Nemmeno a dirlo, una delle prime notizie dei Tg statunitensi. Insomma, una cortina fumogena di quelle degne delle grandi occasioni. Wag the dog, come al solito.
Il motivo di un tale dispiegamento di effetti speciali? Semplice, il ghiaccio sta sciogliendosi sotto i piedi dei pattinatori. Sempre più in fretta. E la conferma arriva dal movimento al limite della schizofrenia dei tassi sui Treasuries statunitensi degli ultimi giorni, casualmente subito prima di due aste (poi rivelatesi record) di decennali e trentennali. Le quali hanno fatto sì il pieno, ma a fronte di una divergenza con tassi reali e breakevens che, per la prima volta, ha visto quei due proxies muoversi all’unisono e al rialzo, spingendo anche i tassi nominali verso un naturale (e sano) aumento. Tradotto, il vento sta cambiando. E lo testimonia, paradossalmente, proprio la Fed. Cos’ha permesso infatti a quelle aste di concludersi con un successone, nonostante gli enormi ammontare offerti e i timori sottotraccia? Il fatto che negli ultimi cinque giorni eminenti membri del Fomc come Loretta Mester, Esther George, James Bullard ed Eric Rosengren abbiamo ripetutamente negato la possibilità di una riduzione graduale degli acquisti mensili già nell’anno in corso. Il cosiddetto e famigerato tapering, comparso ufficialmente nelle minute della riunione di dicembre pubblicate la scorsa settimana.
Casualmente, da allora i rendimenti dei titoli di Stato Usa hanno cominciato – gradatamente ma senza sosta – a salire. Anche perché i verbali contenevano un riferimento da far tremate le vene ai polsi: sottolineando come alcuni rappresentanti avessero fatto presente come fosse il caso di cominciare a ragionare attorno a quell’eventualità. Veniva citato come modello e precedente di riferimento il 2013. Ovvero, il Taper tantrum innescato da Ben Bernanke, lo stesso che a tempo di record invio uno shock sui mercati emergenti più indebitati in dollari. Istanti dopo la pubblicazione di quelle righe, il decennale Usa prezzava l’1,187% di rendimento, il massimo da 10 mesi.
Ecco come Jim Reid di Deutsche Bank ha sintetizzato la situazione: I commenti coordinati dei vari governatori della Fed stanno aiutando i rendimenti dei bond Usa a comprimersi, ma resta un dato di fatto: dall’inizio del 2021 abbiamo avuto solo sette giornate lavorative ma contemporaneamente abbiamo già assistito a un dibattito a 360 gradi sulle possibilità di tapering.
Qualcosa non torna. Di fatto, il Re è nudo. E, come da copione, i cortigiani più fedeli scendono in campo per coprire con la loro voce quella del bambino che grida al mondo l’inconfessabile verità. E adesso? Adesso la situazione si complica. Parecchio. Perché questi grafici mostrano quale sia stata la reazione su rendimento del decennale e cambio del dollaro all’indiscrezione – emersa nella notte italiana fra mercoledì e giovedì – in base alla quale, dopo pesanti pressioni in tal senso da parte del futuro leader del Senato, Chuck Schumer, Joe Biden sarebbe intenzionato ad annunciare un piano di stimolo da 2 triliardi di dollari. Sulla Luna.
Non fosse altro per le due ragioni di cui vi parlavo nel mio ultimo pezzo. Ovvero, il fatto che Goldman Sachs vaticinasse un controvalore di quel programma non superiore ai 750 miliardi e che la precedente proposta democratica si fermasse a un più sobrio controvalore di 1,3 triliardi. E, soprattutto, che l’amministrazione Trump sia ricorsa a un livello di utilizzo del deficit mai registrato in tempi di pace, tale da richiedere un riavvolgimento veloce del nastro fino ai tempi della guerra in Vietnam. Difficile essere più espansivi, a meno di non contemplare fra le ipotesi percorribili quella di portare i libri dei conti pubblici in tribunale.
Signore e signori, madame Realtà è entrata a Palazzo. Per quanto i magheggi del Qe e della stamperia globale continuino a forzare le dinamiche e allontanare la resa dei conti con reazioni di mercato che fino a un quindicennio fa era ritenute assolutamente normali, tanto da essere spiegate nei libri di testo, arriva il momento in cui tutto si ferma. E accade di colpo, quando meno te lo aspetti. Un’intera settimana di non-stop tranquillizzante da parte dei governatori della Fed vanificata da un’indiscrezione della CNN rispetto alle reali intenzioni del Presidente per tamponare il fall-out della seconda ondata di pandemia sull’economia reale: scusate ma Wall Street con i suoi record, a detta di qualche genio, non rappresentava la cartina di tornasole dallo stato di salute della crescita Usa? E il combinato di intervento di Fed e Tesoro non è stato per settimane oggetto di invidia e citazioni da parte di alcuni leader politici del nostro Paese, quelli che rivendicavano con orgoglio il fatto che una Banca centrale deve fare la Banca centrale? Ovvero, in base al loro distorto e clientelare modo di pensare, stampare tutto il denaro necessario a finanziare deficit, così come si aumentano gli etti di pasta da buttare in pentola con l’aumentare dei commensali.
Non va così, invece. E stiamo per accorgercene. Tutti. Perché il rendimento dei Treasuries non è solo il barometro benchmark globale, il termometro della febbre di mercato. È soprattutto la base dei valori di VaR cui sono iscritti a bilancio qualche decina di triliardi di assets: alcuni buoni, altri meno buoni. La gran parte, immondizia imbellettata da valutazioni lunari garantite solo dalla liquidità della Fed. Si possono organizzare aste “pilotate” dagli short squeezes o garantite dal doom loop dei Primary dealers o ancora affollate in base al criterio da vaso comunicante che vede bond e titoli azionari performanti e richiesti allo stesso modo e nello stesso tempo. Ma la realtà, poi, torna a galla. E con un grado di sensibilità enorme, pari a quello della pelle scottata dal sole. Cui anche una carezza procura dolore: è bastata la voce di un piano di stimolo di quella entità, di fatto la certificazione di un’economia reale a pezzi e della totale inutilità in tal senso di quasi un anno di Qe anti-pandemico, per mandare di nuovo in orbita rendimenti e dollaro.
Si è comprato il rumors ma si venderà la notizia? Ovvero, Joe Biden nel discorso che ha tenuto poche ore fa in Delaware avrà smentito quell’indiscrezione, ridimensionandone l’ammontare? Poco cambia. Se Schumer ha fatto pressione, a tal punto da far giungere l’eco dei suoi suggerimenti anche alla stampa, significa che la situazione è straordinaria. E non per l’impeachment. E richiede soluzioni altrettanto estreme. Possono sembrare argomenti lunari, ma non lo sono. Quanto avete letto è solo ciò che sta accadendo sul mercato OGGI, sono i prodromi dello schianto che verrà e che coglierà molti apologeti delle Banche centrali con le braghe calate e la guardia abbassata, incapaci – nella loro miopia populista e nel loro culto del debito – di intravedere una crisi in progress, prima che questa gli si schianti in faccia. E lo stesso, purtroppo, sta accadendo ai daily traders, destinati insieme a Bitcoin a interpretare il ruolo di capro espiatorio del prossimo tonfo (mentre la Cina sarà il drappo rosso da agitare di fronte al toro infuriato dell’opinione pubblica occidentale, tanto per salvarsi la ghirba offrendo un nemico prêt-à-porter): come mostra questo ultimo grafico, tutte le protezioni e le coperture sono state abbandonate.
Sono tutti sbilanciati unicamente al rialzo. Basta un refolo. Una dichiarazione. Una Fed che cominci a perdere colpi nella sua recita rassicurante. E tutto cambia. In una notte. Come con Lehman Brothers. Esattamente come quei rendimenti dei Treasuries, passati dai cieli azzurri dell’asta trentennale ai nuvoloni neri della tarda serata sugli schermi della CNN. State pronti.