Non c’è che dire, Andrea Orcel è riuscito a mandare di traverso a Olaf Scholz anche la vittoria in Brandeburgo. Il total return swap con cui Unicredit ha opzionato un altro 11,5% di Commerzbank, ottenendo in contemporanea il via libera della Bce a salire fino al 29% dell’istituto tedesco, proprio non è andato giù. Perché il Governo di Berlino esce con le ossa rotte dalla vicenda.



Prima annuncia la vendita delle quote controllate dallo Stato, poi si dimentica che il mercato è una prateria in cui non corrono soltanto animaletti mansueti. E Unicredit ha operato da vero predone. Immediata istituzione di una commissione governativa che faccia luce su come sia stato possibile il blitz, quando ci si aspettava un azionariato diffuso di piccoli soggetti controllabili. E tanto per gradire, la risposta di Unicredit è appunto l’operazione via derivati per salire ancora. Allora si evoca l’Opa ostile. Con tanto di nomina di Bettina Orlopp a nuovo Ceo con un’unica missione: bloccare la scalata italiana. O, quantomeno, renderla decisamente impervia e faticosa. Sabotando il terreno e rendendolo accidentato quanto basta, se serve. Magari con un little help beatlesiano della Bundesbank.



Ma davvero a spedire alle stelle la pressione arteriosa di Olaf Scholz nelle ultime ore è stata la vicenda Commerzbank? Non solo. Signore e signori, altro giro. E altro tonfo tedesco. Perché due giorni prima del voto in Brandeburgo è stato pubblicato il dato PMI tedesco di settembre. In tutte le sue tre voci, ovviamente. Manifattura al 40.3 da 42.4 e contro attese di 42.3. Servizi a 50.6 da 51.2 e contro attese di 51.0 e composito al 47.2 da 48.4 e contro attese di 48.2. In compenso, dopo la sbornia olimpica, anche il PMI francese è letteralmente sprofondato. Mal comune, mezzo gaudio. Anzi, mezzo Qe. Perché mentre venivano snocciolati questi dati, ecco che la speranza compariva come un arcobaleno all’orizzonte.



Per la prima volta dal 2022, la curva del rendimento 2-10 anni dei titoli di Stato teutonici è andata in inversione. Ovvero, il decennale è tornato a rendere più del titolo a due anni. Tradotto, la Bce taglierà i tassi molto di più e molto più in fretta. Esattamente come accaduto dieci giorni prima negli Usa. E la Fed, prontamente, ha tagliato di 50 punti. Preannunciandone altrettanti entro fine anno. Prodromo a una mezza alluvione di liquidità, perché se i dati macro continueranno a stagnare, occorrerà posare la pistola e impugnare il mitra. Se non il bazooka, scomodando una metafora tanto cara alla Bce.

Ora date un’occhiata a quest’altro grafico. Come avrete letto e sentito, dopo aver stravolto la politica del suo partito, per mantenere il controllo del Lander-feudo del Brandeburgo, Olaf Scholz ha subito l’umiliazione pubblica di dover sottostare al diktat dei dirigenti locali della Spd. Ovvero, se vuole nutrire una speranza di vittoria, si tenga a debita distanza. Nessuna presenza, nessun comizio.

E vittoria è stata, ancorché a fronte di un prezzo politico astronomico. E probabilmente esiziale. Come governare, stante i risultati di Verdi e Liberali, appare comunque misterioso. E persino sommando i consensi dei socialdemocratici con quelli della Cdu, la matematica pare impietosa. Il grafico mostra la distribuzione del voto ai vari partiti in base alla fascia di età. Settantenni e ventenni. I primi, apparentemente fedeli al verbo della Spd. I secondi schierati massicciamente con Alternative fur Deutschland. Tutti che bramano di indossare una camicia bruna e marciare al passo dell’oca, come si evince dalla cronache quotidiane improntate alla paranoia, da Repubblica in giù? Dubito.

Chiaramente, il tema dell’immigrazione ha inciso. In primis, l’abuso di welfare di cittadini stranieri che – letteralmente – campano sulla pelle dei contribuenti tedeschi. La svolta di Scholz su espulsioni e Schengen lo certifica. Da sinistra. Ma forse, quella polarizzazione che sembrerebbe semplicisticamente dipingere una nuova Hitler-Jugend che freme per assaltare il Reichstag, vuole porre fine anche al regime rappresentato dal primo grafico pubblicato. Quello della curva. Perché al netto delle favole, due anni di inversione dei rendimenti tedeschi a seguito di quasi 200 miliardi messi sul piatto dal governo di Berlino a vario titolo per contrastare la pandemia, dimostrano come la Germania abbia accettato il do ut des europeo. Ovvero, accettazione di un’agenda eterodiretta di distruzione dell’economia reale, automotive in testa in ossequio al suicidio green, a fronte di un Dax alle stelle. Ma quanti possono permettersi di campare con l’investimento in equity? E quanti, invece, fanno i conti con lavori salariati sempre peggio pagati e sempre più precari, persino nella moderna ed efficiente Germania, oltretutto vedendo restringersi anche le risorse a disposizione del munifico stato sociale della Repubblica federale?

Certo, tacciare di neonazismo è più facile. Soprattutto del dover rendere conto di scelte che possono razionalmente rientrare solo in un novero binario di ragione: stupidità o malafede. Tutt’intorno, trading desk che banchettano sulle rovine fumanti dell’industria. Attenzione a cercare Weimar dove non c’è. Ma anche a non vederla, dove invece già proietta flashback che si preannunciano come preoccupanti trailer e spoiler. Perché il Qe strutturale può essere la nuova Versailles. Il Trattato e non la reggia.

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