Questo link a un articolo del Financial Times pubblicato giovedì sera nella versione on-line è dedicato a chi si lanciava in trenini di Capodanno per la crisi di Volkswagen, forse in ossequio a quella Schadenfreude anti-tedesca che affonda le sue profonde e meditate radici culturali nell’odio per quell’insulto all’estetica e al buon gusto che sono i sandali Birkenstock indossati con i calzini bianchi.
Dal 2020 a oggi, 58.000 posti di lavoro sono andati perduti nel comparto della componentistica per auto. Componentistica. Volanti. Leve del cambio. Cruscotti. Specchietti retrovisori. Fino all’elettronica, ovviamente. Parliamo di PMI, insomma. Di quel vero miracolo italiano di cui ci si ricorda solo il giorno della scadenza delle tasse. Nulla a che vedere con le privatizzazioni del profitto e le socializzazioni delle perdite di Fiat o con i favori di quel redivivo Romano Prodi che proprio al Lingotto regalò Alfa Romeo, preferendola a Ford. Nemmeno a dirlo, gran parte di quelle Pmi operano nel Nord Italia. Lo stesso che sta cominciando a contare le croci del suo simbolico cimitero di Arlington della de-industrializzazione felice e silenziosa, retaggio funebre di una guerra apparentemente non dichiarata. Perché condotta da quinte colonne.
E a chi vi dice che il peccato originale di Volkswagen è stato lo scandalo emissioni e non il Green Deal, chiedete chi lo scoprì, montò e gestì fin dal primo istante. Casualmente, il Dipartimento di Giustizia Usa. Assolutamente immobile e assorto, invece, quando si trattava dei campioni domestici del motore. Gli stessi che quel padreterno di Barack Obama ha salvato con una mega-rottamazione come primo atto da Presidente, roba da far impallidire l’Iri e la Cassa del Mezzogiorno messe insieme. E vogliamo in tal senso parlare della polpetta avvelenata Monsanto-Roundup che ha affossato la chimica di Bayer?
Chiaramente, se si guarda il tutto con le lenti focalizzate sul colore e sui loghi delle magliette delle nazionali come fa qualche ossessionato anti-tedesco, dalla nostra bocca proromperanno spontanei un chissenefrega e un peggio per loro. Ma pensate che chi ha lavorato sodo e con maestria ed eccellenza per fornire le componenti di quelle auto tedesche e che ora si vede sorpassato dalla concorrenza a basso costo della Serbia, sia nei fatti un traditore della Patria e un collaborazionista del Reich ordoliberista? Sono altri gli indirizzi cui rivolgersi, se quello è il destinatario che cerchiamo. E mi pare evidente che proprio la crisi deflagrata negli ultimi mesi – grazie a una transizione green gestita con senno da Tso da una Commissione che o ci è o ci fa rispetto ad agende parallele ed eterodirette da interessi stranieri – opererà da booster e da amplificatore per questa dinamica. E questi numeri. Dietro i quali ci sono donne e uomini. Conti correnti. Affitti. Mutui. Prestiti. Bollette. Famiglie. Rossi da coprire. Sconfinamenti. Scoperti. Ipoteche. Pignoramenti. Congelamenti e fermi amministrativi. Segnalazioni in Centrale rischi. Sofferenze e incagli.
Oltre a questo, poi, c’era un sistema industriale. Paludato e giurassico, forse. Ma smontato ad arte. E negli ultimi tre anni letteralmente schiacciato sotto una pressa ideologica. Temo che non ci si renda ancora conto di cosa ci attenda come Europa. Domani e non fra un anno o cinque anni.
Se sarà guerra commerciale come ormai appare chiaro a tutti (leggere al riguardo le parole di Klaas Knot nel mio articolo di giovedì) rischiamo davvero una Nagasaki occupazionale. E un deserto di R&D. E senza ricerca e sviluppo, un tempo finanziate da quotazioni di Borsa che avevano un senso oltre a quella attuale che fa riferimento alla mera speculazione, la morte è assicurata. Si può solo sperare di essere fucilati per ultimi.
Pensate che sia troppo pessimista come al solito? Il mio è il pessimismo della ragione, mi spiace. La vicenda gas mi pare ne sia una conferma. Se volete andare avanti con l’ottimismo della volontà, fate pure. Penso che Gramsci non se ne avrà a male. Ma attenzione. Perché stando alla denuncia dell’Associazione delle piccole e medie industrie di Milano, Monza, Pavia, Lodi e Bergamo, in quest’area del Paese notoriamente riconosciuta come locomotiva, lo scorso anno sono state 1.120 le aziende che hanno chiuso i battenti. Chiuso. Per sempre. In un territorio dove i capannoni si diffondevano con la velocità di un virus in un asilo.
Ecco le parole del Presidente dell’associazione, Alberto Fiammenghi, riportate dal sito del Tg regionale lombardo della Rai: Come imprenditori sentiamo che si è rotto qualcosa, il patto di fiducia pubblico-privato su cui fare affidamento per lo sviluppo e il mantenimento del tessuto industriale. Una sorta di cortocircuito nel sistema… Situazione geopolitica, pandemia, crisi del comparto automobile e recessione tedesca, transizioni industriali e gli evergreen italiani legati a cuneo fiscale, fiscalità e burocrazia, ecco le ragioni di questo inizio di processo di de-industrializzazione. Inebriarsi nella Schadenfreude anti-tedesca, quasi ignorassimo come l’economia del Nord Italia sia visceralmente legata a quella teutonica dell’ordoliberismo brutto e cattivo, è forse la risposta?
Attenzione, qui siamo a livello di intervento del Wwf per aziende che fino all’altro giorno erano orgoglio e spina dorsale dell’economia del Paese. Ammesso e non concesso che non si voglia basare il futuro su moda, design e influencer. E se crolla il contributo del Nord al Pil nazionale, occhio allo spread. Al bonifico della pensione. E anche al conto corrente nottetempo.
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