E, come per magia, la pace tornò sui mercati. Ma attenzione alle dinamiche di cui nessuno parla. Ad esempio, quelle dell’unico Paese che apparentemente non ha risentito della crisi bancaria: la Cina.

Stando a Bloomberg, mentre l’Occidente contrastava i crolli, pur proseguendo giocoforza con il rialzo dei tassi, Pechino emetteva debito a un livello che non si registrava dal 1997 per finanziare la spesa delle province e alleggerire il loro debt burden in vista del muro di maturazioni di fine anno. Nel primo trimestre, il Governo cinese ha emesso bond per 40 miliardi di dollari di controvalore. Le emissioni lorde sono cresciute del 35% su base annua rispetto allo stesso periodo del 2022. I due grafici parlano chiaro. Ma ci dicono anche altro. Ovvero, attenzione alle dinamiche di prospettiva.



L’impatto dell’impulso creditizio cinese su livello di inflazione globale si sostanzia con 7-8 mesi di ritardo, di fatto delineando un quadro che sul breve vedrebbe il calo dei prezzi energetici combinato al rialzo dei tassi assistere le Banche centrali nel comprimere le dinamiche dei prezzi. Ma è solo tempo rubato. Perché il secondo combinato è quello di stimolo tardivo per contrastare la recessione negli Usa nell’Ue, a cui si unirà la componente monetaria cinese. Quindi, nuova fiammata. Anzi, new normal. Perché ormai la domanda non è più come evitare l’indebitamento e nemmeno come ridurlo. Bensì come sterilizzarlo. Una sorta di charge-off ciclico, sotto forma di crisi bancaria o emergenza sanitaria o tensione geopolitica o allarme terroristico. Paradossalmente, aumentando l’indebitamento che graverà su quello sottostante.



Di fatto, il ciclo economico è ormai ridotto a 2-3 anni dai 5 accademicamente intesi. E per quanto qualcuno possa storcere il naso di fronte alle teorie della Scuola austriaca, a far riflettere è il totale annullamento del principio di boom&bust che si imputava come limite strutturale delle politiche keynesiane. La spesa pubblica intesa come intervento spot dello Stato nell’economia è ormai sostituita dal diluvio monetario sistemico delle Banche centrali, la monetizzazione del debito e il finanziamento del deficit sono parte integrante dei processi. Basti pensare a quanto sia pesato finora l’attivismo della Bce nel sostegno al nostro debito rispetto ai margini di manovra ritagliati dai vari governi in Def e Nadef. Cicli brevi e crisi sempre più repentine e violente. Gestibili fino a quando in maniera ordinaria, condivisa e concertata, però? L’utilizzo della deterrenza nucleare come argomenti di diplomazia quotidiana è davvero normale, sostenibile e ormai standardizzato?



La Cina sta caricandosi di nuovo debito, l’Occidente accetterà la sua esportazione di inflazione in cambio del balsamo creditizio. Mentre Pechino manterrà paradossalmente saldo il ruolo benchmark del dollaro, proprio in nome di quella massa M2 in continua espansione. Vasi comunicanti. L’unica certezza? L’Europa ne è totalmente ostaggio, priva di qualsiasi ruolo attivo. Stati Uniti e Cina lo sanno. E già operano di conseguenza. Ma non basta. Perché finanza e geopolitica, ormai, sono un tutt’uno.

L’MI5, l’intelligence interna britannica, ha appena elevato il livello di minaccia terroristica in Irlanda del Nord a severa. Tradotto, un attentato è altamente probabile. E con l’inflazione tornata ad alzare la testa e la Bank of England costretta a proseguire con la normalizzazione dei tassi, meglio preparare l’opinione pubblica alla variabile emergenziale di turno. Old style, roba vintage da anni Ottanta. Ma sempre efficace. Perché mentre i mercati tornano a macinare rialzi, la geopolitica segna il passo. La Russia accusa direttamente la Germania di essere ormai parte in causa nel conflitto ucraino, una sorta di messaggio energetico in codice al Governo Scholz dopo l’arrivo dei Leopard a Kiev. Ma a far riflettere maggiormente è quanto accaduto in Israele. Una crisi che appariva pronta a sfociare in tumulti di massa rientrata in 24 ore. Soprattutto, un Bibi Netanyahu che cede senza opporre resistenza. Ma si sa, quando gli Usa si definiscono molto preoccupati, conviene evitare di stuzzicare il can che dorme. Perché a Washington la paura è stata tanta.

Quale? Perdere in un solo colpo due alleati chiave nell’area. Israele perché fiaccato dai prodromi di una quasi guerra civile e l’Arabia Saudita ormai in luna di miele ufficiale con Pechino. Il fidanzamento siglato dal via libera al pagamento in yuan del petrolio, infatti, era già divenuto proposta formale con la pace storica siglata fra Ryad e Teheran su diretta mediazione di Pechino. Adesso, la spedizione delle bomboniere e delle partecipazioni. Ma a cerimonia già avvenuta. Aramco, l’ammiraglia energetica di Stato saudita, non solo costruirà un complesso petrolchimico da 10 miliardi di dollari in Cina, garantendosi attraverso l’accordo con Sinopec una fornitura giornaliera da 201.000 barili, ma entrerà anche come azionista al 10% nella principale raffineria del Paese, operazione quest’ultima da 3,6 miliardi di dollari. Il tutto alla luce del tour mondiale di arruolamento della diplomazia cinese, tra viaggi all’estero e ospitate in patria dei principali leader non allineati.

Ma attenzione, perché apparentemente anche la Francia pare non aver affatto chiuso la porta in faccia alla proposta cinese di mediazione per l’Ucraina. Mossa che, se confermata nei fatti e in ambito Ue, renderebbe ancora più seria la messa in guardia di Mosca recapitata in maniera chiara e poco diplomatica al Cancelliere tedesco. E mentre Mosca minaccia testate atomiche in Bielorussia e testa missili nel Mar del Giappone, l’Europa pare intenta a lucidare le maniglie sul ponte del Titanic. Gli Usa stanno rendendosi conto che la guerra contro il proxy russo si è dimostrata deleteria, se l’intenzione era quella di alzare un muro contro l’espansionismo cinese. Il quale, infatti, non solo è proseguito sulla traiettoria della Nuova Via della Seta, ma ha anche subito una drastica accelerazione, proprio in concomitanza con il conflitto ucraino e l’imposizione delle sanzioni. E oggi e domani a Pechino sbarcherà il sempre camaleontico e diplomaticamente paraculo Premier spagnolo, Pedro Sanchez, uno che può giocare su più tavoli. Non fosse altro per il numero di rigassificatori LNG di cui dispone il suo Paese.

Domanda: quale Paese non è mai stato citato in questo post? Bravi, lo stesso che ha visto stranamente esplodere dal nulla una criticità esiziale legata all’altrettanto esiziale Pnrr. Temporanea sospensione della terza tranche da 16 miliardi di euro compresa.

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