La realtà è complessa. Ma alla base di tutto, spesso e volentieri, ci sono dati di fatto inoppugnabili. E cristallini. Basta volerli vedere. E questa è la parte sgradevole della faccenda, se occorre mantenere viva una narrazione. Da inizio anno, il titolo di Google ha segnato circa il +58%. La sua performance migliore sui 12 mesi fu nel 2005 con un rotondo +115,2%. Manca un trimestre. E ci sono almeno due armi nel fodero del gigante tech.



Primo, l’AI. Il competitor di ChatGPT di proprietà di Google, Bard, viene già utilizzato per tracking comparativi sulle stock market picks. Guarda caso. E stando all’ultima analisi di MarketDraft, le prestazioni predittive di Bard sono nettamente migliori di quelle della creatura di OpenAI. Inoltre, Cnbc ha confermato come Amazon intenda investire 4 miliardi di dollari nel progetto Anthropic, destinato (almeno nelle intenzioni) a tramutarsi nel terzo incomodo nella corsa all’El Dorado dell’intelligenza artificiale. Ma è la seconda arma che rende Google quasi invincibile, quella mostrata nel grafico: la quota detenuta nel campo delle search engines. I motori di ricerca. I moderni demiurghi che plasmano la Kora. E la tramutano in notizia.



Quando puoi contare sul 90,7% di traffico globale sul tuo motore di ricerca, tu crei la realtà. Non devi raccontarla. E non devi piegarti a essa. La decidi. E questo senza la Cina, dove Google e altre tech Usa sono bannate. E senza la Russia, dove Google ha cessato le operazioni in ossequio alle sanzioni. Certo, Elon Musk con la sua scalata a X viene ormai ritenuto il principale influencer del mondo. Ma Google ha il potere di scegliere quali notizie priorizzare e quali “nascondere” per qualche miliardo di persone. Mediamente non dotate di strumenti qualificanti di critica e conoscenza. Spugne pronta ad assorbire. Il Signor Rossi.



Avete mai utilizzato Google su argomento finanziario? Quali articoli vi propone, di fatto ritenendoli interessanti, credibili e debunkati in ossequio all’ipocrita lotta alla disinformazione e alle fake news? Capirete come l’indice di volatilità, il Vix – al netto dell’ultimo balzo del 12% da rischio shutdown – al 29 settembre avesse chiuso sotto quota 19 per 87 trading days consecutivi, la striscia più lunga dopo i 93 di fila di inizio 2020. Quando il mondo dipende dalla fotografia che tu ne vuoi mostrare, tutto è più semplice. L’inflazione può essere definita transitoria per trimestri. Ed esplodere quando serve alla Fed (e alle banche). Il problema energetico risolto e Gazprom per stracci, salvo ritrovarci già oggi con la bolletta elettrica del quarto trimestre che salirà del 18% (fonte Arera) e il Governo costretto al deficit per i sostegni. Evergrande sull’orlo del fallimento un giorno sì e l’altro no, mentre la crisi persistente delle piccole banche Usa totalmente ignorata, nonostante 100 miliardi di sostegni Fed alla settimana. Da marzo. Chi può combattere contro un simile Leviatano mediatico? Io ci provo. Ma capite che siamo a livello di Cimiano-Real Madrid. Vale comunque la pena provarci. Ad esempio, affinché il maggior numero di persone possibili prendano coscienza di una dinamica come quella che vado a raccontarvi.

Occupandomi dell’argomento da tempo, posso confermare come la cosiddetta de-dollarizzazione sia materia da polarizzazione estrema. O la si ritiene un processo ormai in fase finale che porterà all’implosione dell’Impero o una sorta di leggenda metropolitana che trae linfa dall’anti-americanismo. In effetti, una sintesi può calzare. Il processo è in atto e implica già conseguenze (soprattutto geopolitiche), ma è lungi dall’aver minato il campo in cui da sempre sguazza il biglietto verde. In primis, lo status di benchmark per commodities e finanza. Detto questo, il grafico ci mostra altro. Il proverbiale dito che oscura la Luna.

E se fosse in atto – ben più repentina e potenzialmente letale, non fosse altro per la giovane età della valuta in questione – una de-eurozzazione? Stando agli ultimi dati, l’euro pesa attualmente per il 23% delle transazioni in seno al sistema di pagamento Swift. Solo a inizio di quest’anno quella percentuale era del 38%. Nel medesimo arco temporale, il ruolo dello yuan cinese è cresciuto raggiungendo il massimo storico di 3,47% nel mese di agosto. Il dollaro Usa? Oggi 7 transazioni su 10 sono denominate nella valuta di Zio Sam. Come spiegare il rapido e inquietante declino della moneta unica Ue?

Forse Spfs russo e Cips cinese hanno rubato così tante quote? Decisamente improbabile. Certo, le sanzioni contro Mosca hanno giocato un ruolo. Non fosse altro per il drastico ridimensionamento nell’interscambio commerciale fra Ue e Federazione Russa, energia in testa. Ma il rischio è che quel regime possa sostanziarsi, a breve, per quello che è. Oltre a un’arma geopolitica – parecchio spuntata visto lo stato di salute dell’economia russa, a fronte di cicliche previsioni di default imminente -, soprattutto un rapido ed efficace mezzo di contrasto parallelo allo sviluppo Brics da parte degli Usa. Fiaccando l’alleato invece che irritare il competitor, militarmente pronto alla deterrenza. Di fatto, Sun Tzu applicato al Deep State.

Perché se la Cina ha ovviamente bisogno di un supermarket a cielo aperto come gli Stati Uniti per le sue merci, Washington non può fare a meno delle medesime a basso costo per i suoi Walmart. Un Pil statunitense basato al 70% sui consumi e con dinamiche salariali che rendono poco probabile shopping di massa sulla Quinta Strada, lo impongono. L’Europa? Meglio ridimensionarla, prima che aggiunga beffa a danno.

E Bruxelles pare del tutto inconsapevole, basti dare un’occhiata al cross valutario. Nella testa di Commissione e Bce, solo due priorità: Ucraina e inflazione. Et voilà, l’euro crolla nella sua quota di utilizzo Swift. Di cui ci si è occupati solo per tagliare fuori le transazioni russe e ottenere il congelamento di riserve della Banca centrale.

Quale futuro può avere un’Unione che, alle sempre più conclamate divisioni interne, somma una moneta unica lasciata alla deriva e, di fatto, tramutata in frazione servile del dollaro?

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