Come da tradizione, quando l’Ue vuole intorbidire le acque e cercare di salvare la faccia, ricorre all’inglese. Ed ecco quindi che il farsesco, sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia baserà la sua forza dirompente sul phasing out dal greggio degli Urali. Ovvero, un abbandono progressivo e graduale del petrolio di Putin. Tradotto, sanzioni inutili. Se non addirittura a babbo morto, destinate a non entrare mai in vigore. Visto che si parla apertamente di 2023, data entro la quale il conflitto sarà terminato e tutte le parti in causa si saranno sedute attorno a un tavolo con il capo del Cremlino, riattivando i vecchi rapporti commerciali.
Il fatto che Emmanuel Macron abbia appena passato due ore al telefono con lo Zar, parla chiaro. O pensate che ci siano voluti 130 minuti di interurbana solo per discettare sul tema tregua sì, tregua no? D’altronde, basta dare un’occhiata al titolo di apertura scelto ieri da MilanoFinanza, quotidiano fin dal primo giorno orientato in maniera chiara sulla linea Nato: Prigionieri del gas russo. Il quale, tanto per essere chiari, nel sesto pacchetto di sanzioni non ci è entrato nemmeno con il pensiero, stante l’opposizione tedesca. Mentre in tema di petrolio, oltre al phasing out, Bruxelles è stata costretta a garantire anche l’opt out di due nazioni, Ungheria e Slovacchia, le quali non solo continuano ad acquistare ma pagano anche in rubli. Onde evitare veti, ecco arrivare la loro esenzione. Insomma, facciano pure come vogliono.
Volete capirlo che queste sanzioni sono solo un danno a un’economia europea che sta già ballando il minuetto con la recessione, nel caso dell’Italia la terza in dieci anni, mentre negli Usa ridono e la Fed si permette errori di politica monetaria volontari e strumentali? Non vi basta. Sul filo di lana del grace period che scadeva ieri, 4 maggio, Mosca ha pagato un’altra cedola da 650 milioni di dollari su eurobond in scadenza. E lo ha fatto rimangiandosi la parola, ovvero saldando i creditori in biglietti verdi. Il Cremlino traballa? No. Primo, quel denaro esce sì dalle riserve che ufficialmente sono sempre più esigue, ma che, in pratica, l’Europa sta rimpolpando quotidianamente con gli acquisti di fonti energetiche. Cui si somma lo shopping di Cina e India.
Tradotto, l’Ue delle sanzioni suicide sta di fatto pagando le cedole dei bond di Putin. Quindi, per favore, anche la panzana del default russo che avrebbe portato alla caduta di Putin e alla fine della guerra per via finanziaria, lasciatela ai casi clinici con l’elmetto e il poster di Rambo in cameretta. Qui occorre guardare in faccia la realtà, perché comincia a essere seria. Come dimostra lo spread ormai in area 200 punti base e il rendimento che corre verso il 3%. E come dimostra lo stato di notevole confusione in cui è precipitato nelle ultime 72 ore il ministro Cingolani, prima costretto a smentire in fretta e furia un passaggio dell’intervista con Politico in cui si diceva favorevole al pagamento temporaneo in rubli dei contratti con Gazprom e ieri addirittura costretto a dire la verità sull’addio alla dipendenza da Mosca. Ovvero, se usciamo ora e di colpo, il prossimo inverno ci ritroveremo con le riserve al 40%. Quindi, razionamenti obbligati, fabbriche costrette a turnazioni e stop delle produzioni e termosifoni in case e ufficio mezzi freddi.
Bella prospettiva. Soprattutto se la finalità che la sorregge è quella di garantire la pantomima del Presidente Zelensky, il quale ha già aggiornato a 600 miliardi di dollari i costi della ricostruzione. Avete letto bene, 600 miliardi di dollari. E lo conoscete il motivo di questa accelerazione nella presa d’atto collettiva di una dipendenza energetica che non può essere ridimensionata dalla sera alla mattina? Ce lo mostra questo grafico: nella seduta di contrattazioni del 3 maggio, il prezzo del gas naturale Usa è salito ai massimi dal 2008, toccando nuovamente quota 8 dollari.
Ora, pensate davvero che Joe Biden a sei mesi dal voto di mid-term metta a repentaglio il potere d’acquisto degli statunitensi per continuare a fornire LNG all’Europa? Ovviamente, no. E questo al netto dei costi che quel gas liquefatto presenta già oggi rispetto a quello russo, non fosse altro per i processi di rigassificazione necessari. E poi, se non credete al sottoscritto che certe cose ve le sta dicendo dal primo giorno dell’operazione militare russa, credete almeno al Papa. Il quale, purtroppo, viene ormai trattato dalla stampa come fosse il cantante dei Maneskin: lo si usa per acchiappare lettori, forzando l’attenzione sul concetto che fa comodo. Per il resto, si glissa. E nell’intervista concessa al Corriere della Sera l’altro giorno, Papa Francesco è stato molto chiaro: dopo aver parlato della volontà di incontrare Putin a Mosca, immediatamente stroncata dal clero ucraino (lo stesso che voleva imporgli tempi e modi della Via Crucis), Sua Santità ha sottolineato come la reazione esagerata del Cremlino potrebbe essere stata causata anche dall’abbaiare della Nato ai cancelli della Russia. Testuale. Ora, vogliamo pensare che anche Papa Francesco sia una quinta colonna dell’imperialismo russo? Un agente sotto copertura dell’FSB, come quelli che – a detta di qualche mitomane – vengono inviati negli studi televisivi per avvelenare i pozzi del dibattito pubblico italiano?
D’altronde, questa prima immagine mostra come una ricerca nel sito dello stesso Corriere offra una pesca miracolosa: il settimanale del quotidiano di via Solferino – Sette – aveva offerto cittadinanza a questa teoria, riconoscendo addirittura nel titolo come Mosca avesse avvisato la Nato della sua contrarietà a un’espansione incontrollata dell’Alleanza fin dal lontano 1993. Ovvero, 29 anni fa. E per essere precisi, la famosa promessa del not an inch fu fatta da James Baker e Mikhail Gorbaciov il 9 febbraio del 1990 a Mosca: quindi, ancora prima. Ma prendiamo per buono il 1993: cosa dite, 29 anni, un’espansione che si è inglobata mezzo Patto di Varsavia e una guerra nel giardino di casa della Serbia possono essere sufficienti per aver fatto perdere la pazienza alla Russia oppure no?
E riguardo alle presunte spie del Cremlino nei talk-show e allo scandalo generato dall’intervista di Rete4 a Serghei Lavrov, ecco che quest’altra immagine ci mostra come sempre dalle parti di via Solferino, la tesi riguardo le radici ebraiche di Adolf Hitler non fosse aliena. Quantomeno a livello di titolazione acchiappalettori, visto che non compare nemmeno un punto di domanda.
Questo non rappresenta forse una pericolosa tentazione borderline a piegare la Shoah per interesse editoriale di parte? Forse sì, perché guardate questa altra immagine: è la stessa pagina web di prima, ma che nelle ultime 24 ore ha visto comparire una nota introduttiva dell’autore dell’articolo, in cui si mette in guardia dal relazionarne il contenuto con le tesi sostenute da Serghei Lavrov. E perché mai, essendo le stesse? Frettolosa e imbarazzata excusatio non petita?
Settanta giorni di narrativa e propaganda stanno sciogliendosi come neve al sole. D’altronde come ha aperto il suo intervento di ieri mattina Ursula Von der Leyen alla plenaria di Strasburgo? Embargo totale al petrolio russo. Entro sei mesi. Come dicono a Roma, ciao core… Ma riflettete su un’ultima cosa: quale è stata l’unica decisione realmente efficace annunciata dalla numero uno della Commissione, in fatto di sanzioni? L’esclusione di Sberbank dal sistema SWIFT. Ovvero, una sanzione contro Unicredit. Mentre Credit Agricole dopo Creval, si è inglobata anche il 100% di FCA Bank da Stellantis, proprio l’altro giorno. Ah, il Patto del Quirinale…
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