Non so voi, ma vedere Mario Draghi trattare come pezze da piedi i partiti politici che compongono la sua maggioranza mi sta suscitando, giorno dopo giorno, sempre maggiore soddisfazione. E non tanto per una repulsione viscerale verso il clima da campagna elettorale permanente che questo Paese vive almeno da quattro anni, bensì per la speranza che – settimana dopo settimana, mese dopo mese – la gente finalmente si renda conto del livello infimo della nostra classe dirigente.
Il teatrino sul coprifuoco è soltanto l’ultimo esempio di come la disperazione da consenso possa totalmente spedire in secondo piano la doverosa presa d’atto verso la realtà: siamo alla politica del like, viviamo in un enorme Facebook parlamentare. Bene, è giunta l’ora del log out. E di un dolorosa, quanto necessaria ricomposizione del quadro.
Mario Draghi ha letteralmente blindato la cabina di regia del Recovery Plan, molto più di quanto non fece il giubilato Giuseppe Conte: nessuno, però, ha avuto da obiettare. Nemmeno un fiato. Non vi pare strano che, ad esempio, un partito come la Lega, accreditato dai sondaggi ancora come primo del Paese per consensi, non abbia nulla da ridire sulla gestione extra-istituzionale di potenziali 209 miliardi di euro e sia pronta alle barricate per guadagnare 60 minuti di libertà di circolazione per i cittadini? Un tempo si chiamavano battaglie di retroguardia: di fatto, la magra consolazione di chi sa di essere stato disarmato. E brandisce al vento una spada di gommapiuma. D’altronde, lo diceva anche quel genio di Thomas Stearns Eliot: l’uomo non è in grado di sopportare troppa realtà. E così la nostra politica. E la realtà – capace di disvelarsi sempre più velocemente sotto i nostri occhi, una volta che alla guida del Paese sia giunto non un affabulatore da comizio, ma un semplice e concreto Caterpillar del pragmatismo – è quella che il paradigma dominante dell’alternativa ha imposto al nostro Paese negli sciagurati anni dell’antipolitica da Bagaglino dei governi Conte.
Cosa sia stato e sia in realtà il Movimento 5 Stelle, lo stiamo impietosamente scoprendo in questi giorni e ore dalle cronache. La Lega stessa, abbaia ma non morde. E non tanto perché tema che la rottura porti con sé immediate conseguenze nefaste, magari uno spread che si libri in cielo come un’aquila reale, bensì perché il senatore Salvini ha un doppio avversario da cui guardarsi: al di fuori del partito, Giorgia Meloni. Dentro il partito, Giancarlo Giorgetti. Stimatissimo da Mario Draghi e che, in caso il leader decidesse per un Papeete 2, questa volta lo abbandonerebbe al suo destino. E il senatore Salvini sa che la conta interna, in quel caso, lo vedrebbe sconfitto. Resterebbe attorniato dagli Yes men e intrappolato nella narrazione argentina del debito che non esiste e dell’autarchia come via per la redenzione e la sovranità. Peronismo da Bar sport.
Il mondo intero sta rendendosi conto della fallacia di quella tesi, forse appena in tempo prima di precipitare del tutto. Guardate questi due grafici, i quali mostrano la devastante divergenza emersa dai dati delle trimestrali bancarie statunitensi appena pubblicate.
Il primo illustra quale sia il livello di ratio fra depositi e prestiti delle cosiddette Big 4 (JP Morgan, Bank of America, Citi e Wells Fargo): scusate ma i santoni dell’MMT, quelli del nuovo monetarismo che ripudia il concetto di debito e intende garantire la felicità tramite il tasto print delle Banche centrali, non sostengono che siano i prestiti che creano i depositi e mai il contrario? Peccato che in un mondo dove Fed e Treasury si siano di fatto fusi, monetizzando anche l’aria, questa teoria venga smentita quotidianamente dai fatti. E ce lo mostra il secondo grafico: il delta, la differenza fra depositi e prestiti, è perfettamente coincidente con l’ammontare di riserve iniettate dalla Fed nel sistema dalla crisi Lehman in poi. Di fatto, alla luce di una velocità della massa monetaria M2 ai minimi storici, non esiste al mondo che i prestiti possano operare un off-set efficace (e reale, ovvero legato a domanda e offerta di un ciclo sano di economia reale e trasmissione del credito) della creazione forzata e artificiale di depositi operata dalle Banche centrali. Mai.
Il risultato? Lo scenario in cui stiamo entrando a vele spiegate: deflazione su larga base. A sua volta, controbilanciata da iper-inflazione sugli assets. Cosa pensate che permetta agli indici azionari di sfondare un record al giorno e di viaggiare su una ratio di crescita di 3.5x rispetto all’economia reale? Forse le valutazioni degli strumenti finanziari in base ai sottostanti? Unicamente la necessità di far tracimare liquidità da qualche parte che non sia economia reale, poiché in quel caso avremmo lo sgradevole – e finora sottovalutato – fenomeno dell’inflazione in crescita. Ma si sa, finché c’è una bella emergenza pandemica che garantisce piani di sostegno a pioggia come quello dell’amministrazione Biden, il potere d’acquisto e le dinamiche salariali appaiono degne del regno degli unicorni. Ma quando finiranno, cosa si fa? Facciamo scoppiare una nuova pandemia? Magari una guerra? O un’altra bella ondata di terrorismo, stante i tumulti che circolano sottotraccia in Medio Oriente e l’aumento a dismisura del prezzo dei beni agricoli, gli stessi che fecero da detonatore delle sciagurate Primavere arabe e della nascita dell’Isis?
Guardate quest’altro grafico elaborato da TS Lombard: mostra la dinamica prospettica del controvalore di intervento monetario delle Banche centrali fino al 20220. Per quanto non si andrà mai in negativo a livello di sostegno, i pochi mesi che ci dividono dall’autunno sono – come vi dico da settimane – il vero spartiacque verso un taper generalizzato: persino i banchieri centrali, udite udite, hanno capito che l’Hindenburg del denaro a costo zero sta per esplodere.
Viviamo in un mondo complesso, interconnesso, globalizzato e in cerca d’autore, dopo una crisi finanziaria quasi letale (2008) e una pandemia come non la si vedeva dai tempi della Spagnola. Davvero la ricetta per uscirne è quella di negare la realtà, bypassando le criticità con ricette fantasiose e auto-assolutorie basate sulla loro negazione in nuce? Il debito? Non esiste. Anzi, a detta di qualcuno, quello pubblico rappresenta la ricchezza di un Paese, quasi la sua assicurazione sulla vita. Perché in base a logiche più degne della Banda della Magliana che dell’economia o del serio dibattito politico, lo strozzino (il mercato di capitali) non ammazza il suo debitore, altrimenti i soldi non li rivede più. Ogni tanto lo minaccia (spread, rating), ma poi si arriva sempre a una dilazione delle scadenze. Bene, oggi quella logica sta arrivando – grazie al Cielo – alla fine: si è tirata talmente tanto la corda da non avere più agio, ancora uno scossone e si rompe. Dopodiché, Usa, Cina, Gran Bretagna o Germania trovano il modo di sopravvivere. Persino il Giappone. L’Italia no. Finisce in un limbo stile 1992 con l’aggravante di un debito/Pil del 160% e deficit/Pil di oltre l’11%. Altro che Governo Ciampi, a quel punto ci vorrebbe il Governo di Mandrake.
Ecco, Mario Draghi con il suo atteggiamento verso i partiti sta cercando di far capire a lorsignori che la ricreazione è finita. Che è stato divertente raccontarsi come i Btp fossero l’oro o il petrolio del post-pandemia, ma che adesso è giunto il momento di fare le persone serie. Perché seria, serissima, è la situazione che abbiamo di fronte a noi. Se lo capiranno, bene. Altrimenti, attenzione a non attribuire all’ex numero uno della Bce superpoteri che non ha. Certo, sabotare il suo Governo sarà operazione che richiede ben più di un comizio con il mojito in mano e la richiesta di pieni poteri. Altresì, evitiamo però di commettere l’errore di ritenere che il via libera condizionato sul rating che abbiamo appena ottenuto da Standard&Poor’s sia qualcosa di ipotecato. Può cambiare da una settimana con l’altra. Non nelle valutazioni scritte ma nel re-pricing impietoso del mercato. Quello vero. Altro che Btp Futura.
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