Tanto tuonò. Che non accadde niente. O quasi. A livello europeo, ovviamente. Perché non so se ve ne siete accorti, ma quelle a cui siete stati chiamati a votare domenica,erano elezioni per il rinnovo delle istituzioni europee. Ovviamente, qui si è votato per un referendum interno sul Governo e sui suoi equilibri. Si sapeva fin da principio, inutile negarlo. E, in punta di onestà, occorre sottolineare in tal senso il risultato monumentale ottenuto dal ministro Salvini: chapeau, arrivare al 34% non è cosa che si fa tutti i giorni. Partendo dal 17% delle scorse politiche e, soprattutto, dal 6% scarso delle ultime europee. Il popolo si è espresso, punto. Il problema è: il popolo era sì chiamato a esprimersi, ma su quale direzione doveva prendere l’Europa e, soprattutto, l’Italia in seno all’Ue. La Lega non ha nemmeno presentato un programma o un manifesto in tal senso, di fatto ha sfruttato l’onda lunga del contratto di governo e delle sue parti a maggior connotazione di destra: quota 100 non c’entra nulla con l’Ue, così come la legittima difesa. C’entra, in senso lato, un po’ di più la Tav, ma, in quel caso, vedremo come verrà gestito il capitolo, il quale appare tutt’altro che urgente, quando di fronte a te hai un Def che incorpora 23 miliardi di clausole di salvaguardia in partenza. Ma torniamo all’Europa, il vero oggetto di discussione.
L’ondata sovranista si è materializzata? Zero. Al netto degli ottimi risultati del duo Salvini-Le Pen, la questione è conclusa. Tanto che, in punta di fredda e razionale matematica, Ppe e Pse possono tranquillamente fare un accordo con i liberali dell’Alde, tagliando fuori non solo le ali estreme, ma, soprattutto, persino i Verdi, veri vincitori delle tornata, almeno in Germania, Austria e Francia. Insomma, non contano nulla. E, in quanto punta di diamante di una rivoluzione che non conta nulla, l’Italia nel grande risiko delle nuove istituzioni europee dovrà accontentarsi di un commissario da poco, roba tipo le previsioni meteo o l’oroscopo, se esistesse un organismo ad hoc a Bruxelles. Certo, verrebbe da dire che se l’esempio di un’Italia protagonista è stato quello incarnato per cinque anni da Federica Mogherini, tanto vale farsi carico di responsabilità ma questa è un’altra storia. La questione è che la famosa “onda nera” si è tramutata in bonaccia.
Certo, Marine Le Pen con il suo RN ha superato di un’incollatura il partito di Macron, ma, al netto dei deliri forse dovuti agli eccessivi festeggiamenti, appare lunare che il Presidente francese sciolga davvero l’Assemblea nazionale e rimandi i francesi alle urne per il voto politico, oltretutto con il proporzionale come proposto dalla Marianna in sedicesimi. La quale, giova ricordarlo, non solo è la perenne promessa della politica francese, ma – soprattutto – non vince mai quando conta davvero, come certi calciatori che fanno tre gol contro il Frosinone ma in finale non toccano palla. Di più, con il suo nuovo soggetto politico, ha ottenuto gli stessi voti del vecchio Front National di cinque anni fa. Ha tenuto, tutto qui. Brava, per carità. Ma gioverebbe ricordare ai deficitari di prospettiva politica che Emmanuel Macron, pur avendo perso solo sul filo di lana la corsa per il primo posto (non per il quinto con i Tories in Gran Bretagna o per il terzo residuale come l’Spd tedesca), ha ottenuto quel risultato dopo 28 settimane di proteste consecutive nelle strade di tutta la Francia. Roba che avrebbe ammazzato un cavallo e che invece l’inquilino dell’Eliseo non solo ha domato con concessioni a deficit per una decina di miliardi in tutto, ma, soprattutto, ha sapientemente girato in suo favore, tra infiltrati, destabilizzazione e campagne comunicative.
Insomma, se vogliamo essere sinceri, occorre ammettere che Emmanuel Macron ha ottenuto ciò che voleva, il massimo ottenibile, partendo da un consenso rasoterra com’era il suo lo scorso inverno: polarizzare lo scontro con Marine Le Pen, uccidere del tutto la sinistra istituzionale e arrivare poi alla resa dei conti con la perenne “impresentabile” di Francia. I “gilet gialli” sono serviti a questo. E, infatti, delle 34 formazioni presenti sulla scheda elettorale francese, tre facevano diretto riferimento al movimento di protesta: sapete quanto hanno preso? Circa l’1%. Ma non a testa, messe insieme! Non dovevano portare Macron addirittura alle dimissioni? E questo sarebbe un Presidente sconfitto? Se sì, nella vita vorrei sempre essere sconfitto quanto lui.
E la Merkel, non era morta? Certo, la Cdu-Csu ha perso circa l’8%, una bella tranvata, ma, alla fine, è sempre prima. E a fare il botto ci hanno pensato i Verdi, secondo partito del Paese e fortemente europeista e non la temuta Alternative fur Deutschland che avrebbe dovuto ribaltare l’Ue come un calzino, insieme a Salvini e soci. Verdi che, ovviamente, lì come in Austria e come nella stessa Francia, stanno vivendo il loro magic moment garantito dal combinato congiunto di crisi mortale della sinistra tradizionale ed “effetto Greta”: tutta roba che non dura, insomma. O che, comunque, è destinata ad approdare verso scogli di compromesso istituzionale, non certo su spiagge selvagge e deserte come quelle prefigurate dagli iconoclasti sovranisti.
E Orban? Un tripudio. Peccato sia dentro il Ppe e ben si sia guardato dall’uscirne. Vogliamo trasformare il partito di governo polacco in un modello da seguire, per caso? Se volete, fate pure, io preferisco restare lucido. E, poi c’è Nigel Farage con il suo Brexit Party che da solo ha preso più di Labour e Tories, un bel 31,6%. Peccato che, in quello che rappresenta di fatto l’atto fondativo delle fine storica e ufficiale del bipolarismo perfetto britannico, due forze apertamente europeiste come LibDem e Verdi, insieme, arrivino al 32,2%. Ma non esageriamo con la razionalità, restiamo terra terra e focalizziamoci sul trionfo del paladino dell’addio all’Ue. Beh, se non ci stanno prendendo per il naso per l’ennesima volta, il 31 ottobre lui e i suoi scudieri si ritireranno dalla prima linea di battaglia a Bruxelles e Strasburgo, quindi chi – come il ministro Salvini di fronte alla stampa domenica sera – spera nel loro aiuto così numericamente rumoroso per cambiare l’Europa in senso populista, forse ha fatto male i suoi calcoli. Oppure sa qualcosa in anticipo che noi ignoriamo: tipo che il Brexit, nei fatti, non ci sarà mai. E in quel caso, temo che Nigel Farage e il suo consenso si scioglieranno come neve al sole, perché per quanto in odio all’Ue, i britannici sanno riprendersi in fretta dalle sbronze dovute a temporanea assenza di pragmatismo. E il nostro eroe d’Albione, come sua consuetudine, intravista la malaparata, temo che si venderà al miglior offerente.
Per finire, qualcuno vede nella sconfitta di Syriza in Grecia e nella conseguente decisione di Tsipras di andare al voto politico già a giugno, la sconfessione da parte del popolo greco della sinistra filo-europeista e prona all’austerity: ha vinto il populismo di Alba Dorata, quindi? No, hanno dimezzato i voti e gli eurodeputati, arrivando al 5% e a due rappresentanti. Ha vinto il centrodestra, Nuova Democrazia con il 33%. Filo-europeisti e favorevoli al rapporto con la Troika, esattamente come Syriza. Forse di più. Perché una cosa è la retorica strappalacrime sulla mortalità infantile imposta dagli Erode di Bruxelles, un’altra la realtà di tutti i giorni. Anche quella delle cifre. E i greci, come popolo, il burrone sull’orlo del quale una classe politica incapace e corrotta li ha portati a colpi di indebitamento, magna magna, Olimpiadi faraoniche, baby-pensionati strutturali, clientelismo e derivati allegri per imbellettare i bilanci, lo hanno visto bene, in faccia. Vicinissimo. E non si fanno prendere per i fondelli, l’Europa se la tengono stretta. Non fosse altro per i fondi strutturali e per non diventare, nell’arco di una settimana, una colonia ufficiale della Cina per sopravvivere.
Stesso discorso vale per gli ungheresi, i quali hanno sì votato in massa il sovranista ante litteram Viktor Orban e il suo partito, ma, non essendo fessi, sanno che senza il bilancio ultra-favorevole nell’equilibrio dare/avere verso Bruxelles, le politiche fiscalmente assistenzialiste per famiglie ed economia (leggi dumping verso le nostre aziende, le quali o delocalizzano o chiudono a causa di questa competizione dopata) garantite dall’esecutivo populista, un misto fra Cetto Laqualunque e il Lauro della seconda scarpa post-elettorale, se le scordano. È questa la rivoluzione che cambierà l’Ue e per la quale si strepita tanto, quindi? Se è questa, iscrivetemi d’ufficio alle avanguardie. Ci metto la firma.
Sapete qual è stata l’unica notizia che ieri ha mosso i mercati, in pieno sviluppo della pantomima politica europea e di quella planetaria dello scontro Usa-Cina? La conferma da parte dei due protagonisti dell’ipotesi di fusione fra Fca e Renault. Ed è giusto che sia così, perché se andasse in porto, nascerebbe il più grande polo automobilistico mondiale, un colosso da 170 miliardi di ricavi che, attraverso anche una potenziale partnership con i competitor giapponesi già alleati con Renault, potrebbe davvero sfidare tutti, anche e soprattutto sul campo dell’auto elettrica e di nuova generazione (per quanto i miei dubbi e le mie riserve al riguardo, restino altissimi). Ed è giusto che sia così, perché quella è vita reale: investimenti, ricerca, produzione, consumi, posti di lavoro. Non chiacchiere o alchimie di potere.
E chi ha reso possibile la nascita di una tale ipotesi, trattandosi di due Paesi concorrenti, rivali in molti campi e addirittura nemici politicamente, con tanto di guerre diplomatiche e richiami di ambasciatori? Lo stesso viaggio a Parigi del presidente Sergio Mattarella per i 500 anni dalla morte di Leonardo Da Vinci che ha messo fino alla disputa autolesionista fra Luxottica e i soci francesi. Che ha calmato le acque attorno ai business d’Oltralpe di Fincantieri. Che ha, financo, frenato certe pruderie libiche dell’Eliseo. Ovviamente nulla di ufficiale, ma la moral suasion al suo massimo livello, grazie al cielo, ancora conta più delle chiacchiere elettorali e dei proclami da tribuno. Ve l’ho detto e ve lo ripeto, l’Italia ha due governi. Uno ufficiale, chiamato all’avanspettacolo. Uno parallelo e nascosto, che fa le cose. Il secondo è basato su un triumvirato formato da Giancarlo Giorgetti, Mario Draghi e appunto Sergio Mattarella. Rispettivamente garante dei conti, agente di raccordo e tutore della diplomazia, anche economica. Il resto, cari amici, fa parte di quell’illusoria, rassicurante ma anche un po’ infantile favola chiamata democrazia. La stessa che ci fa credere contemporaneamente al Brexit che verrà e alla natura rivoluzionaria della vittoria di Farage alle europee.
Pensateci. Ora, occhi spalancati e orecchie tese al 6 giugno, giorno del board della Bce. Lì si capirà di più. Molto di più. Per adesso, tirate pure un sospiro di sollievo. La nottata è passata.