Questo articolo poteva essere diviso in due parti. Troppi contenuti al suo interno. Ma, a mio avviso, a volte occorre un bel concentrato. Tanto per rendere indigesta la lettura e far capire quale sia il livello di manipolazione in atto, mentre ci distraggono con baggianate rese virali alla bisogna. Quindi, vi chiedo scusa fin da ora per le troppe informazioni poco piacevoli con cui vi troverete a fare i conti nei prossimi minuti. Spero che vogliate arrivare fino in fondo. Nonostante il rischio di travaso di bile sia dietro l’angolo.
E ora, una volta concluse le necessarie precauzioni e istruzioni per l’uso, partiamo dal principio e diamo il via a questo meraviglioso viaggio nella fase terminale dell’ideologia green. E della crisi industriale e occupazionale alle porte. Nella fattispecie, partiamo da ciò che rappresenta una non notizia. Semplicemente perché ritenuto indegno di essere tale dai cosiddetti media autorevoli. Gente che ci mette un attimo a cambiare idea. Un giorno ti ama, quello dopo ti ignora. Volubili come una mannequin. Già, è incredibile come certe istituzioni sposino alla perfezione il principio delle targhe alterne, quantomeno a livello di credibilità.
Oxfam viene universalmente riconosciuta come una vera e propria colonna nella lotta alla povertà e alle diseguaglianze. Non a caso, quando pubblica un report su questo tema, quasi tutti i media lo riprendono con grande evidenza. Questo invece risale al 17 ottobre scorso. Prima che World Bank e Fmi tenessero i loro meeting annuali a Washington. E casualmente, pare terminato nel dimenticatoio. Sicuramente le redazioni lo hanno ricevuto. Ma per qualche strana ragione, il fatto che una cifra compresa nella forbice fra 23 e 41 miliardi di dollari dei fondi stanziati dalla Banca Mondiale fra il 2017 e 2023 per finalità di cosiddetta climate finance non si sa che fine abbia fatto, pare non suscitare interesse. Si tratta di quasi il 40% del totale di quanto messo a disposizione da quell’istituzione in fatto di finanziamento di progetti green.
La ragione? Poor record-keeping practices. Praticamente, fra lo stanziamento e la fine del progetto finanziato, nessuno tiene traccia. Non si sa letteralmente dove siano terminati i soldi. Non vi pare uno scandalo decisamente più rilevante e grave – non fosse altro per le mere proporzioni economiche – di altri che invece guadagnano le prime pagine dei quotidiani per molto, molto meno?
Vuoi dire che certi argomenti sono e restano tabù, persino se a denunciare gli schemi Ponzi che li sottendono è un’istituzione non certo sovranista o negazionista come Oxfam? Io temo di sì. E attenzione, perché sul tema una notizia ancora più seria l’ha pubblicata non più tardi di 48 ore fa il Financial Times. Il link è tratto da un altro sito, in modo da poter essere letto senza necessità di abbonamento. Eurogas, l’associazione che riunisce i big dell’industria del gas europea, quatta quatta si è ritirata dalle trattative in corso presso la Commissione Ue in seno al Just transition european framework agreement. Ovvero, un progetto che vede sedute al tavolo negoziale di Bruxelles proprio Eurogas e i sindacati europei della categoria (220.000 addetti) al fine di giungere a un accordo – patrocinato e finanziato dall’Ue – per la riqualificazione dei lavoratori colpiti dalla transizione green.
Di cosa e di chi stiamo parlando? Nella fattispecie, uomini e donne. Lavoratori. Chi perderà la propria occupazione per l’uscita totale dal fossile e l’entrata nel regime a basse emissioni. La ragione? Gran parte dei 100 soggetti che compongono Eurogas si sono detti preoccupati per la cornice legale che l’accordo creerebbe. Tradotto, i big come Shell, TotalEnergies e Equinor preferiscono un approccio stile Thatcher con i minatori del Galles. O, al massimo, licenziamenti di massa stile miniere della Ruhr. Glück auf, felice uscita. Ma, in realtà, buon ritorno. A casa. Dai tuoi cari. Fuori da buio e fuliggine, centinaia di metri sottoterra. Così si salutavano i lavoratori del carbone di Essen e dintorni. I quali hanno pagato un prezzo enorme alla sostenibilità. Ante litteram. Oggi, invece, nel pieno della transizione lautamente finanziata da organismi come Ue e Banca Mondiale, chi produce si chiama fuori dagli accordi. Mentre i miliardi stanziati spariscono.
Cosa ci trovate di ESG in tutto questo? In compenso, sempre l’altro giorno e nel silenzio totale è giunto il primo risultato alle sanzioni Ue contro le auto elettriche cinesi. Svolt Energy Technology, uno dei più importanti produttori cinesi di batterie per auto elettriche, si sta preparando a chiudere le sue attività in Europa a partire dal gennaio del 2025. Solo nel 2020, la compagnia cinese aveva annunciato l’intenzione di investire fino a 2 miliardi di euro per la realizzazione di due impianti di produzione di batterie nello Stato tedesco del Saarland, con la contestuale creazione di circa 2mila posti di lavoro. Ora, invece, chiude anche il quartier generale di Francoforte. Fine. Si sbaracca.
Di più, Svolt aveva anche firmato un accordo con Stellantis per la fornitura di batterie per auto elettriche a partire dal 2025. Puff, sparito. Perché tanto silenzio a fronte di un concentrato simile di notizie su un argomento fino a ieri dipinto come assolutamente spartiacque, a vostro avviso? Forse questo grafico e il suo contenuto ben poco rassicurante possono avere qualcosa a che fare con la fuga alla chetichella dal meraviglioso mondo ESG a cui ultimamente stiamo assistendo?
Vuoi vedere che il prossimo passo sarà un colossale cerino bruciacchiato che risponde al nome di green bonds? Sarà per questo che, di colpo, da ogni dove emergono atteggiamenti e argomentazioni critiche – quando non apertamente ostili – contro tempi e modi della transizione ecologica imposta da istituzioni internazionali che nessuno ha mai votato? In compenso, ieri Volkswagen ha confermato la chiusura di almeno tre fabbriche in Germania, il taglio di migliaia di posti di lavoro e la decurtazione salariale del 10% per chi avrà la fortuna di salvarsi dalla mannaia della razionalizzazione dei costi. Fra poche settimane, il fallout di questo disastro piomberà sull’economia italiana, componentistica e subfornitura. Ora, se volete, preoccupatevi per i dossier. O festeggiate i 3 euro di aumento delle minime.
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