C’è voluto decisamente poco prima che la mia previsione rispetto al rischio di elezioni anticipate in Germania divenisse in realtà. Potere del catastrofismo. E a confermare implicitamente come la situazione stia precipitando a velocità preoccupante, ecco che nell’arco di 24 ore una messe di segnali più o meno contrarian hanno invaso il mercato e la scena politica.
In primis, il fatto che a fronte di una crisi di governo disordinata e scomposta come questa, la Borsa del Paese politicamente più stabile d’Europa abbia festeggiato. Il solito discorso. Ma imprescindibile. Ovvero, ormai il Dax è unicamente mosso da liquidità della Bce ed espansione dei multipli. Il sottostante macro è assolutamente ininfluente. Anzi, più le cose vanno male per Herr Muller, più le equities prezzano sostegni e aiuti. E quindi salgono. Lo chiamano libero mercato.
Secondo indicatore, appunto, l’ennesimo e contemporaneo dato macro che conferma il processo di de-industrializzazione terminale dell’ex locomotiva economica europea. La produzione industriale di settembre è calata su base mensile del 2,5% contro attese di -1%, mentre su base annua si registra un -4,6% contro aspettative di -3,0%. Il tutto nel mese che, storicamente, segna un rimbalzo dopo la stagnazione agostana.
Terzo, mentre Olaf Scholz millantava sicurezza e ostentava piglio da Cancelliere pienamente nella funzione dei suoi poteri, nominando Jorg Kukies nuovo ministro delle Finanze, il capo dell’opposizione e candidato cancelliere della Cdu, Friedrich Merz, accelerava i tempi della crisi. Chiedendo l’anticipazione del voto di fiducia – fissato dal Cancelliere per il prossimo 15 gennaio – già la prossima settimana: Non ci sono ragioni per attendere oltre due mesi. E invece, quantomeno per Olaf Scholz, ci sono quelle ragioni. In due mesi e con un bilancio federale che ancora consente possibilità di manovra fiscale, il Governo di minoranza rosso-verde nato dopo l’abbandono dei Liberali avrebbe potuto mettere in campo una riedizione in sedicesimi dell’autunno/inverno 2022. Quello della crisi energetica e dei 200 e passa miliardi di aiuti e sostegni, 30 dei quali solo per evitare che Uniper andasse a zampe all’aria e generasse default a catena fra le utilities di gas e luce. Ma, soprattutto, due mesi avrebbero consentito al Cancelliere di spostare il focus.
Difficile, infatti, scaricare il peso di un fallimento politico e della crisi industriale peggiore dalla Riunificazione su un partito come quello Liberale che non arriva nemmeno al 5% di rappresentanza parlamentare autonoma. Più forte e razionale la tentazione di dire la verità. Ovvero, le politiche deliranti, dissennate e autolesionistiche imposte dai Verdi e dall’ala più estrema della Spd in fatto di transizione green, addio al nucleare in testa, hanno seminato il campo della de-industrializzazione. La stessa che poi la politica sanzionatoria verso la Russia ha irrorato di concime dopante e irrigato in abbondanza. Per l’esattezza, 17 pacchetti di sanzioni che equivalgono ad altrettanti colpi di mazza fa baseball nelle parti basse. Tafazzi è il santo protettore dell’Ue. Ma scaricare tutte le colpe sui Verdi comporta due rischi.
Primo, precludersi future alleanze. E stante i numeri della Spd, nessuno può escluderne la necessità. Secondo, finire nel mirino dell’opposizione che chiederebbe conto alla medesima Spd della sua pedissequa accettazione di ogni diktat imposto dai nipotini di Joschka Fischer. Il rischio? La Spd utilizzerà l’Ue come sede principale di campagna elettorale, spostando sui Paesi fortemente indebitati il focus di una crisi che, per una volta, con gli spread ha poco a che fare. E se i deliri Esg e del Green Deal sono stati accettati da tutti i Paesi membri, ecco che la Germania potrebbe utilizzare l’argomento degli argomenti. Cioè, se la Bce non avesse dovuto sciorinare tutto il contenuto della sua cassetta degli attrezzi proprio per mantenere stabili i differenziali di Italia e Spagna attraverso il reinvestimento titoli, oggi avremmo molte armi in più per contrastare la crisi. Paradossalmente, persino la possibilità di emissioni comuni in stile Covid per sostenere almeno il comparto automotive. Nel contempo, l’opposizione della Cdu sarà costretta ad assumere toni ancor più di destra e da falco, dovendo tentare la missione non facile di drenare consensi ad Alternative fur Deutschland per tornare al Governo con i cugini bavaresi della Csu. E, magari, gli stessi Liberali scottati dall’esperienza del semaforo.
Se sarà mozione di sfiducia immediata e conseguente convocazione delle elezioni anticipate entro fine marzo (la scadenza naturale era fissata a settembre 2025), da qui alle urne la Germania tenterà in tutte le sue componenti di evitare il confronto sugli errori di politica interna (immigrazione in testa) e getterà strutturalmente il pallone nell’arena di Bruxelles. Proprio in contemporanea con la discussione sul nuovo Patto di stabilità e con le procedure di infrazione di Italia e Francia che avranno passato il primo vaglio e dovranno operare un doloroso matching con le risorse accantonate nelle Manovre economiche. Uniamo al tutto la volontà tedesca di ripagare la scalata di Unicredit a Commerzbank con la stessa moneta bancaria e il fatto che da lunedì prossimo Roma tornerà sotto i riflettori per il collocamento delle quote di Mps in capo al Tesoro (e che ancora fanno eccedere il 20% di partecipazione) e capite da soli che sottovalutare quanto sta accadendo equivalga a suicidarsi. E il Governo appare sinceramente spiazzato e ben poco interessato.
Volendo avanzare un consiglio non richiesto, meglio archiviare in fretta il voto Usa e le sue provincialissime rivendicazioni di vicinanza e amore. La crisi Volkswagen sta già mietendo vittime nel tessuto industriale del Nord Italia. Un’eventuale stretta europea su agenda Bundesbank relativa ai nostri conti pubblici o alle detenzioni di Btp potrebbe rivelarsi ingestibile. Se poi i mutui ninja con cui le banche tedesche finanziano allegramente acquisti immobiliari al 100% e anche 110% dovesse fare un frontale con l’aumento delle sofferenze causato dalla crisi e dai licenziamenti, ecco che tornerebbe di gran moda l’acronimo che nemmeno si può nominare. Ma che segnerebbe il varco del Rubicone.
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