Sapete cos’è accaduto mercoledì scorso nel mondo? Sapete quale notizia non avete letto sui giornali di ieri, monopolizzati com’erano dall’allarme spread, di fatto ridimensionato in fretta e furia e – come vi avevo detto – basato in buona parte sulla rotta a precipizio del Bund, dopo il dato del Pil tedesco? Bene, inutile sprecare tante parole, ve lo dice questo grafico: la somma dei dati macro emersi principalmente da Usa e Cina quel giorno si è sostanziata nella seconda peggior lettura congiunta degli ultimi cinque anni.



Partiamo dalla Cina. Le vendite al dettaglio sono salite in aprile del 7,2% contro l’8,7% di marzo, il dato più basso dal maggio del 2003 e la stima più bassa di tutte quelle avanzate dagli analisti, visto che quella più conservativa era data al 7,5% e quella media all’8,6%. La produzione industriale è scesa dal 6,5% di marzo all’attuale 6,2%, mentre gli investimenti fissi hanno rallentato al 6,1%. E attenzione. Qualche genio della prospettica vi farà notare che siamo comunque di fronte a numeri decisamente lunari rispetto all’anemia generalizzata dagli zero virgola europei. Vero, peccato che stiamo non solo parlando del colosso mondiale che per anni ha trainato la crescita e ora continua a rallentare, ma anche facendo i conti con un sistema che nei soli mesi di gennaio e marzo ha visto le sue istituzioni iniettare nell’economia oltre 1 triliardo di dollari sotto forma di nuovi prestiti agevolati. Puff, già spariti. E senza che la stessa economia ne beneficiasse in alcun modo, come mostrano le rilevazioni. Le quali, giova inoltre ricordare, sono ufficiali da parte delle autorità cinesi, quindi da prendere con le pinze.



Ma per essere ecumenici e fare riferimento al principio sacro della par condicio, eccoci all’America della disoccupazione praticamente zero e della crescita oltre il 3% fisso. Perché mercoledì anche gli Uds hanno comunicato al mercato parecchi dati macro, nonostante l’intero trading sia stato mosso unicamente dai rumors sulla pantomima commerciale con la Cina, la più grande arma di distrazione di massa dopo il Russiagate. Ad aprile la produzione industriale negli Stati Uniti è calata dello 0,5% su base mensile, dopo quattro mesi consecutivi di stagnazione. Si tratta del calo maggiore dal maggio 2018. Ma il vero danno arriva dal cuore dell’economia Usa, le vendite al dettaglio che muovono quei consumi capaci ancora oggi di rappresentare il 70% del Pil statunitense. A marzo erano cresciute dell’1,7%, mentre ad aprile sono calate dello 0,2%. Il tutto non solo con un vero e proprio tracollo del mercato automobilistico, ma anche con un netto rallentamento del commercio nonstore, ovvero quello online. Signori, comincia a patire qualche rallentamento anche quella macchina da soldi senza tregua e dell’offerta perenne di Amazon, per capirci.



Ed eccoci al grafico che mette la situazione in prospettiva: il commercio globale nel suo insieme oggi è ai livelli della grande depressione post-Lehman, tanto che le esportazioni mondiali sono ai minimi dal 2009, quelle verso le economie avanzate pure e quelle verso l’Unione europea flirtano insistentemente con lo stesso livello di debolezza. Il mondo è fermo. E le sue due economie-traino pure. O, quantomeno, in netto rallentamento.

Pensate che sia colpa, tutta colpa della guerra commerciale fra Cina e Usa? Eppure, guardate la dinamica da jo-jo: nel 2015 non c’era alcuna disputa di dazi e tariffe in ballo, eppure il dato del commercio si era inabissato. Peccato che proprio quell’anno la Bce sia partita in quarta con il Qr. Boom! Adesso, invece, la dinamica stava sì rallentando, ma serviva uno shock esogeno per accelerare le pratiche e garantire l’alibi per nuovo allentamento monetario, visto che per tre anni abbondati alla gente si era venduta la balla della ripresa solida e congiunturale: et voilà, una bella guerra fra Pechino e Washington! E attenzione, perché dal 2009 in poi nel corpaccione economico del pianeta sono stati iniettati, in un modo o nell’altro, circa 20 triliardi di dollari di liquidità.

Dove sono finiti? Non certo nell’economia reale, stante come siamo ridotti e come si è ridimensionata l’intera narrativa della ripresa globale, sostenuta e sincronizzata post-2015. Signori, la crisi è già qui. Certificata da questo ultimo grafico, il quale ci mostra come quella attuale sia la stringa di risultati negativi più lunghi del dato PMI manifatturiero globale degli ultimi 20 anni. Siamo morti, di fatto compriamo quasi per reazione pavloviana. Nulla più.

Guardate le dinamiche salariali statunitensi, ad esempio: piantate come semafori, nonostante gli strepiti per il dato della disoccupazione più bassa dal 1969. Peccato che, contestualmente, nessuno vada a vedere a quale livello sia il tasso di partecipazione alla forza lavoro. E, soprattutto, quale tipo di occupazione sia stata creata. Siamo dentro un Matrix che gira a vuoto e che ha come unico riferimento la finanziarizzazione del sistema, le Borse sono l’unica cartina di tornasole universalmente riconosciuta dello stato di salute del mondo. Wall Street sale? Per tutti la crisi è passata. Quando invece, paradossalmente, più quegli indici dopati da denaro stampato in cantina e debito che si accumula sul debito salgono, più occorrerebbe guardarli come termometri che vedono salire il mercurio della febbre globale: occorre fermare questa follia, il prima possibile. Ma, come ho detto mille volte, farlo significa mettere in discussione un modello di sviluppo che non si basa su sofisticati prodotti derivati, su speculazioni borsistiche od obbligazionarie o su commodities. Semplicemente, se volete fermare questa follia collettiva, dovete accettare il fatto che lo smartphone non si compra più a rate o con l’usufrutto tramite canone mensile e che non si può cambiarlo ogni sei mesi. Semplicemente, un telefono da 1000 euro non è alla vostra portata. Punto, prendetene uno da 200 o 300 e mettetevi l’animo in pace: tranquilli, anche senza 12 fotocamere o la possibilità di lanciarlo nel cesso senza danni, potete fare una telefonata lo stesso, in caso di emergenza. E, soprattutto, si sopravvive ugualmente.

Dovete accettare che le automobili non si possono acquistare in migliaia di comode rate e cambiare ogni uno-due anni, magari comprando l’occasione che arriva da un ex flotta aziendale o dai leasing, perché quello significa solo garantire la primazia alle holding finanziarie delle case produttrici e non agli ingegneri o agli operai che quelle macchine le costruiscono. Perché pensate che tutti i produttori di auto stiano investendo come matti solo in due comparti, auto elettrica grazie all’ossessione ambientalista collettiva e credito al consumo? Perché pensate che la stessa Bce garantì alle finanziarie delle case automobilistiche la possibilità di accedere alle ultime aste Tltro di finanziamento a lungo termine, come fossero banche a tutti gli effetti, postando come collaterale “carta di famiglia”? Perché pensate che ogni tot di tempo salti fuori, puntualissimo rispetto alle crisi di vendita del comparto, uno scandalo legato alle emissioni? Per amore dell’ambiente o perché, in quel modo, si possono cambiare i criteri dei test e gettare sul mercato nuove automobili che quei collaudi green-friendly – ufficialmente – li hanno superati?

Dovete accettare che, magari, quest’anno in vacanza non si può andare o si può andare solo cinque giorni, altrimenti ciò che si alimenta non è soltanto la logica perversa dei prestiti al consumo, ma un sistema in base al quale non esiste più alcun presupposto macro e tutto è reso possibile, fruibile, raggiungibile dall’indebitamento strutturale. Il quale non crea Pil, crea schiavitù. Ecco il vero cancro, il nodo del problema. Perché, a vostro modo di vedere, in vista del voto americano del prossimo anno, l’argomento che maggiormente sta scaldando gli animi è la richiesta di moratoria quasi tombale su un’ampia fetta del debito scolastico? E perché Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, stancatisi in fretta della pantomima ambientalista del Green New Deal, hanno puntato tutto su una campagna per arrivare a un cap a livello nazionale del 15% massimo per gli interessi previsti sulle carte di credito, limite federale che però può essere ulteriormente abbassato a livello dei vari Stati?

Il giorno in cui il senatore del Vermont ha sparato la proposta sul Washington Post, i titoli delle carte di credito e delle banche emittenti a Wall Street hanno patito un mancamento. Volete diventare americani? Anzi, volete prendere della società americana proprio il lato deteriore, pur di avere lo smartphone nuovo o l’auto a rate che non potreste, in realtà, permettervi? Va bene, però sappiate che il costo di questa presunta libertà consumistica è quello di entrare in un vicolo cieco di stagnazione come quello che stiamo vivendo, sia a livello di crescita economica e salariale che di diritti, più o meno acquisiti e acquisibili.

Ormai ci siamo, entro al massimo tre mesi arriverà il nuovo scossone borsistico, dopo quelli di ottobre e fine dicembre 2018. Sarà brutale, preparatevi. E servirà a mettere un freno definitivo alla Fed e le ali, come l’energy drink, alla Pboc. Tutti festeggeranno in Borsa. E, probabilmente, anche in molti Parlamenti. Tutto ricomincerà per un po’ come sempre, la Borsa tornerà a essere un luna park sempre aperto e pieno di luci e per qualche mese i dati macro diventeranno nuovamente argomento di tweet di Donald Trump. I cinesi, poi, fingeranno che tutto sia a posto e ricominceranno a taroccare senza ritegno i dati sul sistema bancario ombra e sull’indebitamento locale. Vi sembrerà di essere usciti dalla crisi, ma, invece, saremo entrati nel girone infernale successivo a quello attuale. Sempre più vicini al punto di non ritorno ontologico che tutti gli schemi Ponzi hanno connaturato in sé.

Un mondo, come quello in cui viviamo, dove la stragrande maggioranza del debito corporate è di fatto junk a livello di indebitamento e leva, ma viene tenuto artificialmente investment grade dalle valutazioni allegre della società di rating è una bomba a mano innescata, senza spoletta e con cui si sta giocando a palla prigioniera. Lo stesso vale per indici di Borsa sostenuti pressoché unicamente da buybacks frutto di politiche consociative come quella connaturata allo shock fiscale di Trump, basata sul rimpatrio quasi gratis di denaro detenuto off-shore dalle grandi multinazionali (soprattutto tech, quelle che vi vendono irresistibili, nuovi smartphone ogni mese), purché una parte sostanziale venisse usata per tenere alte le valutazioni di Wall Street.

È tutta un’enorme truffa, un’illusione ottica di benessere basata sui cicli di boom&bust tipici degli stimoli monetari, un qualcosa di perverso e velenoso anche nel suo profilo storico di emergenzialità e che oggi, invece, sta divenendo del tutto strutturale e sistemico alla prosecuzione della marcia suicida della giostra. Pensateci, quando a breve Fed e Pboc annunceranno il loro nuovo piano di “aiuto” all’economia e ai mercati. Perché quello sarà il giorno dell’ulteriore passo verso il baratro.