Mi scuserete se evito di perdere tempo con ragionamenti approfonditi sulla Nota di aggiornamento del Def e sulla manovra economica in generale. Non tanto perché da qui a fine mese, quando dovrà giocoforza aver preso forma e fatto quadrare i conti, molto potrà ancora cambiare. Bensì perché rappresenta nulla più che un giochino a incastro, una serie di caselline messe in fila con qualche salto carpiato per far tornare le somme: roba da ragionieri. E nemmeno tanto bravi, anzi. Di riforme o crescita, di slancio, nemmeno l’ombra. D’altronde, c’era la “tassa Papeete” da pagare, come se le clausole di salvaguardia sull’Iva fossero un retaggio unicum dell’era salvinian-balneare.



È già cominciato lo scaricabarile delle responsabilità su chi ha preceduto questo governo, all’eredità nefasta con cui dover fare i conti. Come al solito. Intendiamoci, partire da -23 miliardi e mettere insieme una manovra accettabile è gioco di prestigio non da poco – tanto è vero che l’Ue ci permetterà con ogni probabilità di far salire il deficit senza minacce di procedura di infrazione -, ma al Paese questo Def servirà quanto un’aspirina a un malato terminale. Forse, è così che deve andare. D’altronde, questo esecutivo il suo compito costitutivo lo ha già portato a casa, per un po’ potrà vivacchiare di rendita, infilando ogni tanto qualche provvedimento spot a fini elettorali per le regionali.



E sapete perché è nata questa strana compagine, la quale – come la vaccinazione che si faceva al militare – copre tutto e va da Matteo Renzi a Luigi Di Maio? Per questo, far precipitare ai minimi non solo l’indice di instabilità politica e possibilità di rottura dell’eurozona, il cosiddetto Euro Break-Up Index di Sentix, sceso al 6,5%, livello più basso da aprile 2018 (ovvero, dopo le elezioni politiche italiane ma prima della nascita del governo giallo-verde), ma, soprattutto, il sotto-indice che fa riferimento all’ipotesi di Italexit, oggi solo al 4,7%.

Tutto qui. È l’ennesima, enorme e generale pantomima, resa necessaria dalla minaccia sovranista. In questo caso, globale e non solo europea o italiana. Provo a spiegarmi. Mentre a casa nostra si rivende alla platea l’ennesima bufala della lotta all’evasione per fare cassa, mettendo a bilancio improbabili entrate provisionali e in campo nomi esotici come cash-back e bonus Befana, in Grecia compariva per una due giorni Mario Draghi, entrato ormai nel suo ultimo mese da governatore della Bce. Per la precisione, martedì sera il numero uno dell’Eurotower ha tenuto un discorso alla prestigiosa Accademia di Atene, di cui è stato insignito dello status di partner associato straniero. Il contenuto del discorso è stato la fotocopia delle ultime uscite del governatore: gli Stati che possono, devono utilizzare la leva fiscale per investire, poiché la crisi ha accelerato al ribasso in maniera inaspettata e non ci si può attendere che la Bce possa ancora una volta togliere le castagne dal fuoco da sola.



Tutto molto interessante, reso ancora più ghiotto dal fatto che domani ad Atene arriverà Mike Pompeo, reduce dalla tre giorni in Italia. E se da noi l’argomento di discussione principale pare essere stato il capitolo 5G appaiato alla minaccia dazi, in Grecia il segretario di Stato Usa è atteso per parlare di cose serie. Per capirci, tre basi per sommergibili, più formazione sulla cyber-security e accelerazione sulle trivellazioni a Creta e nell’Egeo. Non ditelo al nostro ministro degli Esteri, potrebbe avere un mancamento. La Grecia, d’altronde, con i nuovi equilibri mediorientali – innescati in primis dal conflitto siriano e dal rinascente interventismo iraniano – è tornata a essere pietra angolare degli interessi statunitensi nel Mediterraneo. E, stante la crisi da cui esce il Paese, i politici ellenici lo sanno e intendono ottenere il massimo in fase di do ut des con l’inviato della Casa Bianca.

Anche perché il Governo di centrodestra guidato da Kyriakos Mitsotakis si trova nella medesima condizione di quello italiano sul fronte interno: far seguire alle parole, i fatti. Trionfatore alle elezioni dello scorso luglio che hanno posto fine all’era Tsipras, l’esecutivo di centrodestra ha subito mostrato il suo volto smaccatamente business-friendly, soprattutto attraverso un’agenda di drastico taglio fiscale per favorire gli investimenti. Al centro di tutto, il taglio al 22% dell’odiata Enfia, la tassa sulla proprietà che colpisce le prime case, retaggio diretto dell’operato della Troika. Ma non basta. Anche l’imposta sugli utili è prevista in calo dall’anno prossimo dal 28% dal 24%, mentre quella sui dividendi verrà dimezzata al 5%.

Inoltre, l’esecutivo ha intenzione di abbassare dal 22% al 9% la prima delle tre aliquote sui redditi delle persone fisiche, quella che grava su chi ha redditi annuali fino a 10mila euro. Infine, l’Iva sulle costruzioni verrebbe sospesa per tre anni, al fine di favorire gli investimenti nel settore. E sul fronte della crescita, i dati appaiono positivi. Il Pil è cresciuto dello 0,8% nel secondo trimestre, in forte accelerazione dal +0,2% del primo, mentre su base annua è passato dal +1,1% al +1,9%.

Ovviamente, l’intero quadro va messo in prospettiva: la crescita resta ancora di circa un quarto inferiore ai livelli pre-crisi e la disoccupazione viaggia ancora attorno al 18%. Qual è il problema, allora? Duplice. Primo, dopo un mese di trionfali annunci, i nodi sull’Enfia stanno venendo al pettine. Sotto forma di risorse insufficienti per dare seguito a quanto promesso. E infatti, a fine settembre il Governo è stato costretto ad ammettere che circa 750mila proprietari di immobili, i quali pesano per oltre il 50% del gettito Enfia annuale, non potranno godere di alcuna riduzione quest’anno. Di fatto, la classe media non beneficerà di alcun taglio fiscale. Insomma, un gruppo di cittadini che ogni anno attraverso quel balzello garantisce all’erario 1,3 miliardi di euro, resterà deluso.

E attenzione ulteriore, perché i dati parlano chiaro e smentiscono molta della propaganda che è circolata attorno alla ricetta – da qualcuno definita reaganiana o thatcheriana, sfidando il ridicolo e l’ira di Dio – del nuovo Governo ellenico: per 3,49 milioni di proprietari di immobili con un valore fino a 60mila euro, la riduzione annuale varierà fra i 50 e i 55 euro l’anno. Meglio di un dito nell’occhio, ma, certamente, nulla di risolutivo. Un altro milione di tenutari di case il cui valore varia fra i 60mila e i 100mila euro beneficerà invece di un risparmio medio di 70-80 euro rispetto al 2018, mentre quelli con case valutate fra i 100mila e i 150mila euro vedranno – in base a una contorta logica di scaglioni – un taglio medio di 55 euro. Insomma, ci vai in pizzeria. Una volta sola. E solo con tua moglie, niente figli.

In compenso, l’intera impalcatura è retta grandiosamente da questo: il mercato azionario di Atene va come un treno. Anzi, va come Wall Street. E non da luglio, quando il centrodestra ha vinto le elezioni con un programma dichiaratamente pro-business e liberista (a parole), bensì da inizio anno. Ovvero, da quando si è reso chiaro a tutti – paradossalmente, proprio in fase di chiusura ufficiale del Qe – che la Bce avrebbe non solo continuato a tamponare le falle e sostenere le economie europee più deboli, ma che, soprattutto, a breve avrebbe ripreso il timone della situazione. Come è accaduto.

D’altronde, nel novembre 2018, un mese prima della fine degli acquisti, Mario Draghi con un blitz implementò ed estese il programma di re-investimento titoli in detenzione, garantendo uno schermo anti-spread a Italia, Portogallo e Spagna che andava ben oltre l’orizzonte temporale ufficiale. Direte voi, cosa c’entra la Grecia, i cui bond non sono stati oggetto di acquisti nel Qd, non avendo eligibilità poiché con rating junk? E qui casca l’asino e salta fuori l’inganno: guardate la schermata dei titoli azionari della Borsa greca e guardate le valutazioni da inizio anno dei titoli bancari. Cos’è, di colpo la Grecia ha istituti sanissimi e i migliori banchieri al mondo? Mi sentirei francamente di escluderlo, con tutto il rispetto. Cosa giustifica allora il +62,23% da inizio anno del titolo Piraeus Bank o il 59,31% di National Bank of Greece o ancora il +36% di Alpha Bank?

Due cose. Primo, il prospettato sostegno governativo alle banche con l’apposizione di una garanzia pubblica sui crediti deteriorati ceduti, al fine di garantire la tranche meno rischiosa degli Npl e abbattere così lo stock di questi ultimi per una trentina di miliardi di euro dagli 80 attuali, pari a ben il 45% dei crediti totali. Serve l’ok dell’Eurogruppo, però, per un’operazione simile. Ovvero, dell’Ue. Arriverà? La Borsa pare dirci di sì, così come la luna di miele di fine mandato di Mario Draghi ad Atene. Secondo, dei circa 355 miliardi di euro di debito pubblico, solo una settantina è in mano ai privati dopo la ristrutturazione con haircut del 2012. Il resto è in pancia alle medesime banche elleniche che stanno esplodendo di salute in Borsa, nonostante i volumi di scambio reali di quei bond siano ancora bassissimi su mercato secondario. In compenso, la Grecia intende restituire in anticipo parte dei 9 miliardi finali di prestito ricevuti dal Fmi.

Insomma, ottimismo a secchiate. Perché? Perché si scommette che una fra le quattro sorelle del rating (Standard&Poor’s, Fitch, Moody’s e la canadese Dbrs, quella che ha mantenuto in vita da soli i bond portoghesi per almeno 3 anni dopo la crisi del 2011, garantendo la loro eligibilità all’acquisto) farà il grande salto e riammetterà la carta ellenica fra le securities con investment grade, permettendo quindi alla stessa di diventare acquistabile dalla Bce nel corso del prossimo programma di Qe che inizierà a novembre e, nelle intenzioni di Mario Draghi, durerà fin quando necessario. All’infinito, insomma. Il tutto, con una ratio debito/Pil di Atene ancora al 180%.

Vi servono altri indizi sul fatto che, in questo momento storico, i governi nazionali siano solo dei passacarte e che, stante il ruolo delle Banche centrali e dell’Ue, il loro unico compito sia quello di arruffianarsi al meglio il potente di turno? La Grecia, viste le concessioni che domani farà a Mike Pompeo, lo ha capito e, tanto per mandare un messaggio a Bruxelles, si prepara alla prova d’amore verso Washington. I nostri governanti, lo avranno capito?

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