Esclusi dagli amici a Berlino, sempre più invisi ai “nemici” in patria. Tanto da essere additati a pietra angolare della russofobia. Un capolavoro diplomatico. Il Libano rischia di trasformarsi nella Sant’Elena di Giorgia Meloni. Perché il suo odierno viaggio nella martoriata nazione mediorientale si terrà mentre a Berlino si incontreranno i leader di Usa, Francia, Germania e Gran Bretagna per discutere di Ucraina. Il tutto a poche ore dalla presentazione del Piano per la vittoria da parte di Volodymir Zelensky in visita al quartier generale della Nato. E dopo che lo stesso Presidente ucraino ha ufficializzato come il suo Paese sia in guerra anche contro Iran e Corea del Nord.
L’Italia è sola. I tempi delle grancasse diplomatiche del G7 pugliese sembrano lontani anni luce. Era solo giugno. E da quel Gruppo di contatto, ora Roma pare esclusa. In compenso, la decisione dell’International Astronautical Congress in corso a Milano di negare il visto alla delegazione russa, ha spinto Mosca ha tuonare ufficialmente contro Roma, parlando di indignazione verso l’ennesimo atto di russofobia del Governo.
E ora, che si fa? Giorgia Meloni pare intenzionata a giocarsi in solitaria la carta mediorientale. Definendola prioritaria. E in tal senso, ha preparato la strada al suo viaggio-lampo in Libano in linea con l’indignazione per gli attacchi dell’Idf contro le basi Unifil, sottolineando come il profilo del commercio di armi del nostro Paese con Israele sia più restrittivo di quello scelto da molti altri partner. Vero. Non a caso, solo mercoledì Olaf Scholz ha ribadito come la Germania continuerà a vendere armi a Tel Aviv, nonostante gli incidenti in atto. In compenso, prosegue la pantomima riguardo l’invio di missili Taurus all’Ucraina. Temo che l’incontro a quattro di oggi scioglierà anche quell’ultima, residua resistenza. A quel punto, negare che la Nato sia in guerra diretta con la Russia sarebbe unicamente un ridicolo esercizio di stile. Con tutte le conseguenze che questo comporta.
Giorgia Meloni è stata sedotta e abbandonata dall’Amministrazione Biden. Quel bacio in fronte rischia di tramutarsi nel bacio di Giuda. O, politicamente parlando, nel proverbiale kiss of death. Il bacio della morte. La ragione? Sta tutta in questo grafico.
Ora, prendiamo un simbolico aereo che viaggia nel tempo e voliamo Oltreoceano. Il 10 ottobre scorso, il board of trustees della prestigiosa Brown University ha bocciato per 8 contrari contro 2 favorevoli la mozione che chiedeva il disinvestimento dell’ateneo da 10 aziende riconducibili alla macchina bellica di Israele. Lo scorso maggio la decisione di dar vita a un simile voto aveva fatto scalpore, non fosse altro perché maturata sulla spinta emotiva della tendopoli pro-Gaza ospitata dall’istituto di Providence.
Quella che vedete rappresentata è la grafica principale di uno studio curato del Watson Institute for International and Public Affairs della medesima Brown University. Pubblicato lo scorso 7 ottobre, nel primo anniversario dell’attacco di Hamas. Insomma, il clima in Rhode Island era tutt’altro che tiepido in attesa del voto. E cosa ci dice? Che nell’anno cominciato appunto il 7 ottobre 2023, gli Usa hanno finanziato militarmente Israele per 17,9 miliardi di dollari. Il massimo assoluto per un singolo anno solare.
Quale lezione trarne? A mio avviso, una sola. Al netto delle ipocrisie. Che come nel Senato dell’Antica Roma, gli Stati Uniti vivono al loro interno un dibattito feroce. Spietato. Qual è la loro arma, però? La percezione di compattezza inviata all’esterno. Alle colonie deve arrivare un messaggio chiaro e univoco. Devono arrivare ordini. Cosa deve interessarci, quindi? La capacità di leggere quelle cifre. Di cercarle. Di trovarle. Perché gli Usa, al netto dei mille difetti, la trasparenza la offrono. Certo, non è a buon mercato. Né a portata di mano. Ad esempio, occorre addentrarsi dentro il sito del Brookings Institute e navigare dentro l’accademica serietà legale di Lawfare per imbattersi in How America’s Aid to Ukraine Actually Works. E scoprire che dei 174,2 miliardi di dollari contenuti nei 6 Appropriation Acts adottati dal Congresso Usa dal 2022 a favore dell’Ucraina, in realtà direttamente a Kiev ne arriveranno solo 80. Dall’Europa? Più di 110. Dati del Kiel Institute for the World Economy.
La dinamica in questione è mostrata plasticamente da quest’altro grafico. Perché gli aiuti contemplano tutto. Anche magazzini di vecchi armamenti da svuotare che comportano costi di stoccaggio. E che invece, una volta resi spogli, garantiscono spazio all’industria del warfare.
C’è un problema, però. Un costo che non si riesce a contabilizzare. Quello del danno politico. E con l’operazione in Ucraina, Washington ne ha inferto uno a Bruxelles praticamente letale. Chiedere alla sempre più de-industrializzata Germania per conferme e referenze. Proprio nelle scorse ore, dopo il ciclico stress test cinese nella acqua attorno a Taiwan, giungeva la notizia che la Corea del Nord abbia fatto saltare alcune strade che la collegano con la Corea del Sud. Si sta scomodando il Babao geopolitico per antonomasia in vista del voto Usa, insomma. Pessimo segnale. C’è chi la definiva igiene del mondo, chi cantava che è bella anche se fa male. Una cosa è certa: la guerra crea Pil. E indotto. E soprattutto, ordine mondiale e status quo. Ed è già tutta intorno a noi.
Attenzione, poi. Dal 22 al 24 ottobre a Kazan si terrà l’annuale summit dei Brics. Quest’anno sotto la presidenza di turno russa. La cui agenda di de-dollarizzazione e creazione di un ordine mondiale alternativo a quello dell’anglosfera appare tutto, tranne che meramente teorica. Ambiziosa. Molto. E la Cina si prepara a operare da garante dell’operazione. La Via della Seta da cui l’Italia è scappata nel peggior modo possibile, è ormai superata. Si ragiona già sull’ipotesi di un Fmi dei Brics, stando all’ultima bozza dei lavori. Qualcuno forse dovrebbe chiedere conto alla Farnesina di quale sia la politica estera del nostro Paese. E, soprattutto, di chi ne sia responsabile e titolare. Perché fallimentare.
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