L’Australia ha deciso di suicidarsi. Una prece. Ognuno, d’altronde, è padrone del proprio destino. E Canberra non deve temere l’ira dei francesi, rimasti orfani di un accordo da oltre 60 miliardi di dollari per la costruzione di sottomarini siglato nel 2016 e ora rimangiatosi dagli australiani in nome del patto trilaterale con Usa e Gran Bretagna. No, la scelta aussie è suicida perché così facendo si accetta ufficialmente il ruolo di cavallo di Troia statunitense per destabilizzare Taiwan. Guarda caso, la patria mondiale della produzione di microchip, il nuovo Sacro Graal della crisi sulla supply chain globale e l’arma strategica per vincere la guerra tech e della transizione sostenibile. E Canberra con quel fuoco chiamato One China sta scherzando da parecchio tempo. Almeno da due anni, quando prima di abbandonare il Dipartimento di Stato, Mike Pompeo, riconobbe una sovranità de facto a Taipei nei rapporti bilaterali con Washington, atto che Pechino definì «un’aperta provocazione che non resterà senza risposta, in caso si passasse dalle parole ai fatti».



Detto fatto, come spesso accade, ciò che i Repubblicani minacciano, i Democratici – una volta giunti al potere – lo mettono in pratica. E questi due grafici mostrano quanto le uscite del primo ministro, Scott Morrison, sull’ineluttabilità di un’inchiesta indipendente sul Covid e appunto la necessità di tutelare Taiwan da una deriva in stile Hong Kong siano già costate a livello economico all’Australia: se da un lato i produttori di vino si sono visti alzare un muro di tariffe dall’esiziale mercato cinese, dall’altro i numeri dell’interscambio commerciale di Canberra con Pechino sembrano parlare appunto la lingua di un suicidio in preparazione. O, forse, di una migliore offerta economica messa sul piatto. Una di quelle offerte a cui non si può dire di no.



Il problema è che Pechino non ha perso tempo nel reagire. Anzi. Il 16 settembre, poche ore dopo l’annuncio del patto a tre, il ministro del Commercio cinese, Wang Wentao, ha sfruttato l’occasione offertagli da una teleconferenza con il suo omologo neoozelandese, Damien O’Connor, per annunciare la formale presentazione di adesione della Cina al Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), il patto commerciale trans-pacifico lanciato da Barack Obama con il nome di Trans-Pacific Partnership e poi mutato negli equilibri dopo l’abbandono Usa deciso da Donald Trump (2017), a detta del quale questo aveva perso il suo connotato originario di contenimento dell’espansionismo economico cinese.



Composto da 11 Paesi ed entrato in regime di attivazione nel dicembre 2018, il CPTPP rappresenta infatti solo un tassello della strategia cinese nel Pacifico. E, paradossalmente, quella meno letale per Canberra dopo il suo voltafaccia. Nonostante il Global Times, la voce in lingua inglese del Partito comunista cinese, abbia trionfalmente salutato l’annuncio, definendolo «una mossa che cementa la leadership cinese nell’area e sancisce il sempre crescente aumento dell’isolamento commerciale statunitense», il vero cappio cui l’Australia pare decisa a impiccarsi risponde a un secondo acronimo: RCEP. Ovvero, Regional Comprehensive Economic Partnership. Tradotto, il più grande blocco commerciale del mondo, come questa infografica mostra chiaramente in tutti i suoi dettagli e numeri.

Siglato ufficialmente proprio sul finire del 2020 e con la stessa Australia che ha apposto la sua firma nel novembre di quell’anno (nonostante le richieste di indagini sul Covid avanzate solo cinque mesi prima da un confuso Scott Morrison), rappresenta un accordo di libero scambio fra 15 nazioni della regione dell’Asia-Pacifico, formalizzato dopo 28 round negoziali che hanno richiesto 8 anni di mediazioni. Al 30 aprile scorso, Cina, Giappone, Thailandia e Singapore avevano ratificato a livello politico l’accordo e, stando agli accordi ufficiosi contratti, tutti gli altri membri si sono impegnati a chiudere il processo formale entro il 31 dicembre. Di fatto, con l’inizio del 2022, il RCEP sarebbe operativo. E darebbe vita a un accordo commerciale in grado di rappresentare il 30% del Pil e della popolazione del pianeta. Più dell’Unione europea e del vecchio Nafta (Usa, Canada e Messico), persino più dell’enorme African Continental Free Trade Area (AfCFTA) su quasi tutte le metriche alternative al numero di partecipanti. Stando a calcoli della Brookings Istitution, l’income globale potrebbe aumentare di 209 miliardi di dollari l’anno e il commercio di 500 miliardi entro il 2030. Ma, soprattutto, una simile alleanza garantirebbe un livello di penetrazione enorme nell’area all’economia cinese, di fatto nella condizione di garantirsi un’egemonia a spese proprio degli Usa.

Gli ambiti di interesse, infatti, sono a dir poco strategici: investimenti, competitività, e-commerce, telecomunicazioni, proprietà intellettuale, tutela ambientale e politiche di sostegno statale. Guarda caso, l’Australia era attesa alla ratifica finale nel mese di novembre di quest’anno: con la sua contromossa immediata sull’accordo-gemello, la Cina ha voluto subito aumentare il grado di pressione su Canberra, avendo chiaramente scorto in lei l’anello debole alle lusinghe Usa nell’area per arrivare al bersaglio strategico di Taiwan? Se così fosse, significa che Pechino questa volta non scherza. E che la minaccia avanzata ai tempi di Mike Pompeo e relativa al destino cui va incontro chiunque tocchi lo status cinese di Taipei e il concetto di One China sarebbe pronta a tramutarsi – da subito – in atti concreti.

In gioco c’è molto più della costruzione di sommergibili nucleari o l’export di vino. C’è il controllo di un’area strategica e un ruolo definitivo da primo player globale. E proprio in tal senso, Taiwan potrebbe agire da elemento di disturbo, in caso di tensioni che portino a una reazione della comunità internazionale contro Pechino, in stile Hong Kong e debitamente sobillate – se non orchestrate direttamente – dal Dipartimento di Stato e dalle sue ONG eterodirette. Ciò a cui punta l’America, di fatto. Ma, alla luce dell’accaduto, difficilmente la Francia garantirà il minimo supporto alle richieste statunitensi presso i consessi internazionali.

Attenzione, perché la rapidità che ha contraddistinto quanto accaduto ci mostra come i war games globali stiano ampiamente e pericolosamente passando dalla fase meramente ipotetica e teorica a quella di schieramento e conta delle forze in campo. L’America sapeva che andava conquistata l’Australia prima di novembre, prima di quella firma che l’avrebbe vincolata a Pechino in maniera sempre più stringente a livello economico e commerciale. In tal senso, tornano in mente le parole pronunciate il 1 settembre scorso da Joe Biden, nel corso della conferenza stampa convocata per spiegare le ragioni del rovinoso ritiro dall’Afghanistan: «Il mio ruolo è quello di guidare l’America verso altre sfide, quelle del futuro». Fra cui – anzi, in testa – quella contro la Cina.

L’Europa si svegli e prenda posizione, subito. E per una volta senza timori referenziali o patetici richiami a un atlantismo che fa sempre più smaccatamente rima con servilismo e autolesionismo. Prima che sia tardi. E che Pechino ci riservi lo stesso trattamento in preparazione per Canberra.

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