I simboli, si sa, sono importanti. Ancora di più in situazioni di tensione come quella che stiamo vivendo. In molti si sono soffermati, in tal senso, su un’immagine molto evocativa, ovvero la bandiera rossa che da sabato scorso sventola sulla cima della moschea di Jamkaran a Qom, la città sacra dell’islam iraniano. La tradizione narra che questo accada quando il nemico compie un atto di aggressione particolarmeNte grave e che la bandiera resti quella rossa (invece che blu) fino a quando la vendetta non sia compiuta: insomma, un drappo che simboleggia guerra alle porte. Sicuramente, qualcosa di inquietante. Soprattutto, conoscendo il popolo iraniano e vedendo le scene di piazza di queste ultime ore.
Ora, non prendetemi per un blasfemo o un iconoclasta, ma volete vedere un’immagine di cui avere davvero paura? È questa: domenica tutte le Borse mediorientali e del Golfo hanno patito cali, ma gli occhi degli analisti erano tutti puntati su Aramco, il gigante energetico saudita fresco di collocamento. E già nei guai, non fosse altro per la valutazione raggiunta nei primi tre giorni di contrattazioni e miseramente persa al primo giro di boa. Bene, nonostante il balzo in alto del greggio registrato dopo il raid USA in Iraq, continuato anche ieri, Aramco ha perso l’1,7% in quella che era la prima seduta della settimana nel mondo arabo e, soprattutto, il titolo ha toccato il livello di valutazione più basso dall’Ipo, toccando al ribasso i 34,55 riyals per azione.
Questo significa solo una cosa, limitando il ragionamento all’ambito geopolitico attuale: nel giudizio di analisti e investitori pesa più il timore di un diretto coinvolgimento saudita nella vendetta iraniana preannunciata da quella bandiera rossa che un possibile trend rialzista del greggio, di fatto e formalmente ciò che dovrebbe rappresentare una manna per una compagnia energetica in cerca di supporto. Teheran colpirà prima il proxy di Ryad che infrastrutture o interessi diretti Usa nell’area, punendo così non solo il nemico storico, ma anche l’alleato numero uno di Washington nell’area? E, tra l’altro, anche il capofila di quell’Opec che ha brindato alle sanzioni contro il greggio iraniano, pregustandone il banchetto di quote di mercato. Senza scordare che, almeno a livello ufficiale, l’attacco contro l’infrastruttura principale di Aramco dello scorso settembre avrebbe dietro di sé una diretta regia iraniana, almeno stando alle denunce in tal senso del Dipartimento di Stato Usa.
I ribelli Houthi saranno il cavallo di Troia che Teheran utilizzerà per non dare troppo nell’occhio e dare comunque fuoco alle polveri, colpendo il principale acquirente di armi statunitensi e obbligandolo a un extra deficit per fini bellici che potrebbe mandare fuori giri il bilancio statale e i piani del principe Mohammed bin Salman? Direte voi, visto che la quasi totalità delle azioni di Aramco messe sul mercato sono state acquistate da sauditi o investitori amici del Golfo, poco importa. E, soprattutto, poco contraccolpo a livello globale.
Proprio sicuri? Se per caso Aramco dovesse avvitarsi verso il basso, di fatto rendendo necessario un piano B d’emergenza, difficilmente il Fondo sovrano saudita potrebbe finanziare il Vision Fund 2 di SoftBank, il mega-conglomerato finanziario giapponese già alle prese con i bagni di sangue delle controllate WeWork e Uber. E, anzi, potrebbe rivedere e in fretta anche gli investimenti in atto nel fondo primigenio, Vision Fund, quello appunto cui fanno capo gli unicorni scornati appena citati. Avete idea quante banche a livello globale abbiano investito in quella holding? Avete idea di cosa vorrebbe dire una crisi sistemica di SoftBank? Come minimo, l’intervento diretto di salvataggio – spacciato per supporto temporale – della Bank of Japan. A cascata, una serie di perdite da mettere a bilancio nel primo trimestre di quest’anno per pezzi da novanta come Goldman Sachs e soci, tutti direttamente esposti su SoftBank. Il tutto, riconducibile a quella sacra bandiera rossa che grida vendetta dalla moschea di Qom.
E signori, fidatevi: Donald Trump ha tutto da guadagnare in questo momento da una guerra. Perché per quanto un conflitto su larga scala in quell’area del mondo sia da considerarsi una sciagura epocale, roba da libri di storia, in ballo oggi non c’è la rielezione del tycoon a novembre o la sua volontà di depotenziare il processo di impeachment, bensì la sopravvivenza di un sistema che questa settimana vivrà il suo primo, vero stress test. Guardate questo grafico: ieri sono cominciate le maturazioni delle aste term di fine anno, ovvero le banche hanno rimborsato la Fed di quanto preso in prestito.
Di fatto, drenaggi di liquidità dal mercato. Tutt’altro che impliciti. Ieri per 25 miliardi di dollari, oggi per 28,8 miliardi e venerdì per altri 18 miliardi. Poi, avanti così fino al rimborso generale. Certo, questo altro grafico ci mostra come la stabilità di fine anno a Wall Street sia costata alla Fed qualcosa come 414 miliardi di dollari, rispettivamente 256 miliardi fra aste repo e term e 157,5 miliardi di acquisti diretti di T-Bills sul mercato. Un bazooka, un diluvio di liquidità. E non basta, perché da qui a fine gennaio ci saranno altre 3 aste term, ognuna con un ammontare massimo di 35 miliardi di dollari.
Insomma, formalmente il mercato non dovrebbe morire di sete. Anzi. Tuttavia, un paio di particolari lasciano intravedere qualche ostacolo sul cammino. Venerdì scorso, in piena escalation bellica, la Fed ha infatti pubblicato le minute dell’ultimo Fomc (12 dicembre 2019) e all’interno di quelle belle paginette piene di nulla e frasi di circostanza faceva capolino un periodo che tutti gli analisti hanno sottolineato con l’evidenziatore: stando al consensus del Consiglio, le operazioni di fornitura di liquidità temporanea – repo e term – dovrebbero essere ritirate a partire già da metà gennaio. E sparire del tutto entro fine mese.
Sicuri che accadrà? Wall Street può permettersi di camminare sulle proprie gambe oppure rischia di fare come certi bambini troppo precoci nel togliere le rotelle alla bicicletta? Ed ecco il secondo particolare. Dovete sapere che in base al Federal Reserve Act del 1913, la Fed può comprare Treasuries solo sull’open market, cioè carta già in corso legale e da banche o altre istituzioni finanziarie. Non direttamente in fase di emissione. Già il 31 ottobre scorso, il Dipartimento del Tesoro Usa tenne però un’asta di T-bills a 8 settimane, identificati dal numero Cusip (Committee on Uniform Securities Identification Procedures) 912796WL9 ed emessi fattivamente il 5 novembre seguente. Data prima della quale nessuno ne era legalmente in possesso, né ha tratto interesse da quella carta. Semplicemente, quei bond non erano attivi. Magicamente, nel medesimo giorno di emissione/attivazione da parte del Tesoro, la Fed ha acquisto 4 miliardi di controvalore di quei T-bills con numero Cusip 912796WL9. Una cosa è certa: se quelle obbligazioni sono state sull’open market, lo hanno fatto per poco. Pochissimo, questione di ore. Forse minuti di detenzione da parte di qualche soggetto attivo che, subito dopo l’acquisto in asta al Tesoro, ha “girato” gli stessi T-bills alla Fed, la quale li ha quindi legalmente acquistati e messi a bilancio. O, forse, si è evitata persino la pantomima del passaggio in triangolazione, per vedere l’effetto che fa.
Sembrava un caso fortuito, la classica una tantum. Non loro era. È accaduto ancora, il 16 dicembre scorso quando il Tesoro Usa ha emesso T-bills per 36 miliardi e maturazione a 182 giorni (Cusip 912796SV2), 27,3 dei quali acquistati dai Primary Dealers, ovvero le grandi banche. Le quali tre giorni dopo, il 19 dicembre, hanno rivenduto 3,9 miliardi di quegli stessi T-Bills alla Fed nel corso di un’asta Pomo, il cui totale di acquisto fu di 7,5 miliardi. Insomma, più della metà. Comprata dalla Fed dopo tre giorni dall’emissione e nel giorno stesso di entrata in corso legale. Stessa cosa è avvenuta il 30 dicembre, addirittura su due emissioni, rispettivamente con numero Cusip 912796UB3 e 912796TM1 e scadenza 2 luglio e 2 aprile 2020. Stesso giochino: i Primary Dealers hanno acquistato la maggior parte e la Fed li ha ricomprati in larga parte il 2 gennaio. Tre giorni dopo, senza che mai quella carta abbia visto l’open market, visto che prendeva corso legale nelle stesse ore, anche a causa delle festività del 1 gennaio.
Se volete una conferma diretta, basta controllare sulle sezioni ad hoc dei siti di Tesoro e Fed, inserendo i numeri Cusip interessati. Insomma, la Fed è già giunta al grado di disperazione tale da richiedere una monetizzazione diretta del debito, in flagrante violazione statutaria del suo atto fondativo? Siamo già alla sperimentazione fattiva dell’Mmt o dell’helicopter money, senza avere il coraggio di ammetterlo? Se così fosse, signori miei, una guerra è il minimo che dobbiamo attenderci. Qui non si parla più di mercati da tenere in piedi e sostenere nei loro corsi. Ma del sistema stesso.