Comunque la si pensi, un risultato come quello ottenuto in Europa sul rinvio del bando dei motori endotermici va festeggiato. Non importa il colore del Governo, esattamente come a Mao Tse-tung non interessava il colore del gatto: era sufficiente che prendesse il topo. Qualche riflessione, però, va fatta.

Primo, la vittoria italiana non sarebbe stata possibile senza la sponda del Governo tedesco. Il quale, ovviamente, ha operato per proprio interesse, stante la necessità esiziale che la propria industria di punta non patisse un colpo mortale. Detto questo, forse sarebbe il caso di rivedere certe posizioni anti-tedesche da dibattito al bar. Non fosse altro perché lo studio condotto da Intesa Sanpaolo per la Camera di commercio italo-germanica (AHK Italien) parla chiaro: oggi la Germania è il primo Paese per numero di imprese estere in Italia con il 15,7% del totale delle controllate e il terzo per fatturato generato (16,1% del totale del fatturato prodotto dalle controllate estere). Parliamo di qualcosa come 1.712 aziende tedesche presenti in Italia, con un fatturato di circa 96 miliardi e 193.000 occupati. Meglio mettere da parte certi sciovinismi, quindi. E, magari, soppesare bene alcuni squilibri nei rapporti diplomatici.



Secondo, attenzione a come l’automobile stia diventando nuovamente il proxy di crisi. Se infatti in Europa due pesi massimi come Italia e Germania hanno imposto lo stop, di fatto palesando chiaramente come Berlino sia ormai persuasa che la sua Ursula Von der Leyen risponda a un’agenda differente, ecco che negli Usa il canarino nella miniera di Detroit comincia a tossire. Se l’ultima rilevazione di S&P Global ha confermato come il tasso di delinquencies su prestiti legati all’acquisto di auto abbia appena toccato il livello del 2008, superando il 6% del totale, decisamente più preoccupante in prospettiva è un altro approccio ai livelli della Grande Crisi Finanziaria. Quello della negative equity che sta rapidamente avvicinandosi in area 5.500 dollari, come mostra il grafico. Tradotto, il possesso di una proprietà il cui valore è inferiore all’importo del mutuo (finanziamento) ancora non pagato. Tradotto ulteriormente, d’ora in avanti e a ogni mese, il già sottile filo finanziario su cui cammina uno dei settori chiave rischia di spezzarsi.



Insomma, l’Europa ha mostrato plasticamente come le industrie pesanti restino fondamentali per la sua economia, di fatto aprendo le danze a una quadriglia di paradossale arrampicata sui vetri rispetto all’intero Green New Deal della Commissione. L’America, invece, ci dice che senza un’ulteriore iniezione di liquidità a pioggia nelle dinamiche di reddito, il tasso di risparmio già ai minimi storici sarà presto prima prosciugato e poi spazzato via da un’ondata di subprime 2.0. Difficile parlare di soft landing, difficile per la Fed continuare ancora per molto la recita a soggetto tra falchi e colombe. In un mondo di tech, ESG e sostenibilità, alla fine le automobili restano il termometro più affidabile del grado di febbre del sistema. E chi maneggia soldi, lo sa. Perché la politica può vendere fumo, chi investe no.



Come sapete, una delle metafore più utilizzate nella comunicazione finanziaria è quella della palla di neve che, scendendo a valle, si trasforma in valanga. Doppia messa in guardia. Dall’abitudine di nascondere l’immondizia sotto il tappeto, sperando che magicamente scompaia e dalla sottovalutazione del rischio, quasi a volerlo esorcizzare. E quanto accaduto in sede Ue rispetto alla messa al bando dei motori endotermici si prefigura come una di quelle tappe intermedie del viaggio della nostra palla di neve. Come reagirà infatti la Commissione all’ammutinamento vincente di Germania e Italia? Riconsidererà l’intero pacchetto del Green New Deal, quantomeno nelle tempistiche di attuazione? Oppure cambierà priorità, accelerandone però l’applicazione?

Questo grafico sembra votare per questa seconda ipotesi. Banche, assicurazioni e fondi – se non cominceranno a ballare avvicinandosi all’uscita di sicurezza – potrebbero trovarsi a gestire una criticità.

Nel silenzio generale e come conseguenza dello scandalo greenwashing, ecco che i criteri ESG stanno già subendo un’evoluzione darwiniana. E spietata. I principali players stanno infatti degradando dai portfolios tutti gli assets ESG che non rientrino nella nuova classificazione europea, quella che fa capo ai più stringenti requisiti del cosiddetto Articolo 9. Di fatto, la risposta al greenwashing e alla potenziale crisi di credibilità nell’intero impianto di transizione green che quegli abusi nella certificazione di rating stavano innescando. BlackRock e Amundi sono stati i primi a dar vita a un downgrade delle detenzioni, ora è Bno Paribas a guidare la danza. Dopo che Morningstar ha certificato come solo il 6,3% dei fondi ESG rientrasse totalmente nell’Articolo 9 (il qual impone il 100% di destinazione sostenibile, offrendo minime eccezioni per gestione della liquidità e hedging), Bnp Paribas ha deciso di rimuovere l’etichetta di Articolo 9 da 20 miliardi di euro di assets, ponendosi non solo in scia con il trend globale di downgrade da 175 miliardi di euro di assets solo lo scorso trimestre, ma divenendo secondo provider nella Top environmental, social and governance fund class. L’Articolo 9, appunto.

Il rischio? Duplice. Come il monito insito nell’allegoria della palla di neve. Primo, un mercato parallelo di distressed green debt, quindi assets che hanno subito downgrade rispetto all’Articolo 9 ma che sono ancora spendibili come ESG. Ovviamente, a sconto. E in grado di imbellettare bilanci e portfolios, fino a quando non “marciranno” però. Infestando l’intero paniere. E questo è il secondo rischio: per quanto il mercato accetterà questa coabitazione in seno al già meno attraente business della sostenibilità, prima di dar vita a una crociata contro i fallen angels ESG senza certificazione massima, senza quella tripla A di sostenibilità?

A quel punto, chi e quanto dovrà scontare perdite rispetto alle iscrizioni a bilancio di quegli assets? Dopo la Lehman energetica quasi scatenata da Uniper in Germania e costata una trentina di miliardi al Governo Scholz, è in arrivo quella verde legata alla Commissione Ue e al suo cronoprogramma suicida di transizione ecologica?

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