Unicredit cede la sua intera quota in Mediobanca sul mercato, capitalizzando circa 800 milioni. Un brutto segnale. Ma intendiamoci, per una volta non da ricondurre a dinamiche da 1992 in versione 2.0. Significa che il primo gruppo bancario di un Paese del G7 ha bisogno di soldi. E non miliardi e miliardi. Vende un pezzo di establishment, mette all’asta l’argenteria di famiglia per un po’ di ossigeno. “Che in questo periodo, non fa mai male”, mi dice la mia fonte. Triste storia quella di Jean Pierre Mustier, l’ad del gruppo. Arrivato al vertice con ambizioni che andavano dall’acquisizione di Société Générale a quella di Commerzbank e ora, fra una comunicazione di ristrutturazione aziendale monstre e un aumento di capitale, svende Npl e addirittura quote di partecipazioni che risalivano al Dopoguerra per racimolare liquidità. Siamo a questo, evocare il 1992 significherebbe inseguire chimere di gloria passata che non torneranno. All’epoca fu il Britannia, qui siamo al banco dei pegni. Restiamo con i piedi per terra.
Dalla sua, Jean-Pierre Mustier può dire che fin dal suo arrivo aveva parlato della volontà di dismettere quelle che erano ritenute partecipazioni non core: a quanto pare, far parte dell’ex salotto che conta della finanza italiana, non lo era più. E al riguardo, aveva fissato anche un paletto: quando il titolo Mediobanca fosse salito sopra il prezzo di carico (circa 9,89 euro per azione), sarebbe diventato vendibile. L’operazione di vendita di mercoledì, conclusasi in un’ora, è stata effettuata su un livello attorno a 10,7 euro per azione, garantendo una pluvalenza di circa 50 milioni. L’argent de poche, insomma (stiamo parlando del primo gruppo bancario italiano, non di Banca Etruria), ma festeggiato come fosse l’Ipo dell’anno, di cui si è stati solitari e visionari sottoscrittori.
Fin qui, i conti. Duplice brutto segnale, però: non solo Unicredit si lancia in operazioni di mera vendita su criteri da analista puro, trattando l’addio a Mediobanca dopo 73 anni di permanenza come si archivia un amorazzo estivo. Ma anche Mediobanca stessa appare ormai un club la cui esclusività è terminata in cantina, visto che tutto appare regolato da strategie di rastrellamento. Insomma, il palazzo ancorché nobile, ha il tetto che gocciola, quando piove. E chiunque partecipi alle spese di ristrutturazione, pare essere il benvenuto. Ricordate Wall Street: Gordon Gekko spiegava a Bud Fox la magnitudo del suo successo proprio mentre stavano cambiandosi nello spogliatoio del club esclusivo, dopo la partita a squash. “Mi sono comprato l’ingresso e ora tutti questi fessi di Harvard mi leccano le p….”, diceva dall’alto della sua raggiunta e presunta intangibilità sociale. La mossa di Unicredit, prima che parlarci del mondo della finanza, ci parla anche dell’Italia: nobile decaduta, donna bellissima che non ha saputo invecchiare né con dignità, né con salute. E ora, pur di non cedere alla realtà dello specchio, eccede con il maquillage, rendendosi ridicola agli occhi del mondo.
Jean Pierre Mustier ha formalmente perso, ma lo ha fatto in maniera intelligente: non solo ha capito quali siano ormai le regole del capitalismo imperante, ovvero pressoché nessuna, e si è comportato di conseguenza, vendendo e portando a casa i proverbiali “pochi, maledetti e subito”. Soprattutto, ha venduto con timing perfetto: prima di trovarsi invischiato in una guerra di potere che ha le settimane contate e della quale Unicredit è totalmente disinteressata, stante il quadro generale che comunque ne uscirebbe. Certo, Mediobanca controlla Generali e Generali è la cassaforte del Paese con la sua detenzione di debito pubblico, ma cui prodest infilarsi in quel ginepraio fra Nagel e Del Vecchio, fra conservazione dello status quo e voglia di “una banca leader” che dovrebbe puntare di più sull’investment banking. Scontro che può tradursi tranquillamente con la volontà del patron di Luxottica di regolare due vecchi conti in sospeso, uno il caso Ieo-Monzino e l’altro proprio relativo all’assetto di Generali.
Mustier ha fatto bene: porta a casa liquidità e si libera di una rogna. Certo, facendo questo certifica lo stato reale dei cosiddetti “poteri forti” di questo Paese e questo non rappresenta un bello spettacolo, ma, ormai, temo sia giunto il tempo di fare i conti con la realtà. Qualcosa, nonostante in Italia non se ne sia pressoché parlato, sta cambiando. E lo sta facendo rapidamente ed emergenzialmente, sotto il pelo dell’acqua. La proposta di Olaf Scholz, vice-premier tedesco, al fine di giungere a un’accelerazione del processo di unione bancaria in Europa, lanciata mercoledì mattina dalle colonne del Financial Times, parla chiaro: sia riguardo la necessità tedesca di una garanzia europea che non lasci Deutsche Bank al suo destino, sia del fatto che comunque Berlino intende mantenere un paracadute al suo status, operando direttamente su due capisaldi del nostro sistema bancario disfunzionale. Ovvero, revisione della contabilità degli Npl e dei criteri di detenzione del debito pubblico da parte delle banche. Quindi, il cosiddetto doom loop che blocca il nostro sistema creditizio nel suo nanismo provinciale e consociativismo correntizio e campanilistico.
Questo grafico mostra chiaramente la struttura di detenzione del nostro debito, diviso in quello detenuto da soggetti esteri o interni e, nel secondo caso, in base alle sottocategorie. Come vedete, la parte del leone la fanno le assicurazioni e i fondi pensione (linea viola), seguiti dalla banche (linea verde), ma c’è un terzo soggetto che dal 2015 emerge come outsider assoluto: Bankitalia (linea rossa), intesa come acquirente-detentore di debito pro quota in seno al programma di Qe della Bce. Insomma, un proxy dell’attività onnivora di Mario Draghi a favore del suo Paese.
Forse, nel giudicare l’intervista di Scholz a caldo sul finale del mio articolo di ieri, ho lasciato che la sensazione prevalesse sul ragionamento. E se, per una volta e a fronte di una Francia sempre più in cerca della zampata finale per una primazia europea, la Germania avesse davvero lanciato una ciambella di salvataggio al nostro Paese, un ramoscello d’ulivo, un patto di alleanza contro l’ex alleato d’Oltralpe che alza troppo la cresta (basti vedere l’attivismo di Macron in Cina nelle ultime ore, mentre il ministro Di Maio probabilmente visitava musei)? E se la Germania fosse scesa a patti con il fatto che il regime di Qe strutturale è ormai realtà, il mitico new normal, che il fantasma dell’iper-inflazione di Weimar non esiste più, scacciato da quello della crescita zero e della morte per incapacità di competizione con soggetti che manipolano moneta, economia e finanza in maniera sistemica (Usa e Cina)? Ovvero, le banche come acquirente marginale del debito non esistono più come necessità nel mondo fatato del Qe, neppure per l’Italia che ha campato finora su quel legame incestuoso.
Ci pensa la Banca centrale a mantenere gli spread dove devono restare, come ci mostrano questi ultimi mesi di governo giallorosso, certamente non caratterizzati dall’azione di governo di un manipolo di nuovi Churchill e De Gasperi. Diamo vita allora a un’unione bancaria con nuove regole e che ci consenta di non farci distruggere e fagocitare dai competitor extra-Ue, aggressivi e decisamente con pochi scrupoli. E facciamolo noi per primi, Italia e Germania, visto che la Francia sembra tentata dal salto nel buio, dalla fuga in avanti: sia a livello di rapporti diretti con la Cina, sia proprio a livello bancario, visto che Bnp Paribas ha recentemente acquisito l’intera unità di trading legata agli hedge funds dalla moribonda Deutsche Bank e pare intenzionata a volerne rilevare il ruolo da outsider estero in seno al gran casinò di Wall Street, proprio nel campo dei derivati e delle scommesse più aggressive. Brutto colpo reputazionale e di orgoglio per Berlino.
Che sia il caso di andare a vedere il gioco della Germania, forse? Certo, per farlo servirebbe una classe dirigente degna di questo nome. Ma anche “poteri forti” e “salotti buoni” che non siano unicamente dei club a inviti, sorta di Canottieri del capitalismo di relazione degni di un film dei Vanzina con Christian De Sica, cui affiliarsi solo per poi mostrare le fotografie degli eventi sociali agli amici in provincia. Come si faceva un tempo con le diapositive delle vacanze.