E ora, cosa si fa? Forse è il caso di cominciare a chiederselo davvero, dopo mesi di patetici quanto ipocriti trionfalismi. Spesso, in malafede. L’Europarlamento, di fatto, giovedì ha posto la parole fine sulla questione del Recovery fund, quantomeno relativamente a modi e tempi usciti dal Consiglio europeo di luglio, quello da cui Giuseppe Conte era tornato come il duca di Wellington da Waterloo. Tutto fermo. Tutto impantanato, fra veti dei Paesi di Visegrad e i distinguo di quelli cosiddetti frugali, ovvero nazioni per le quali i debiti è meglio non contrarli. E, nel caso proprio si debba, occorre poi onorarli. Che gente strana questi nordici. Scordiamoci quindi i tempi già biblici di esborso dei primi fondi sui quali il Governo aveva basato i propri wishful thinking relativi alla Manovra 2021: se tutto va bene, si arriverà a un accordo in stile strapuntino per ottenere un anticipo a primavera. Ovviamente, solo se si attiverà contestualmente il Mes, il cui termine finale per l’accesso è stato stranamente spostato da palazzo Chigi proprio entro dicembre.



Insomma, M5S ha bisogno di mostrare la faccia dura ancora per un paio di mesi. Poi, fra nuovo lockdown ormai nei fatti e prezzatura anticipata dello tsunami occupazionale di gennaio, stante la fine del blocco dei licenziamenti fissata sempre per fine anno (e impossibile da prolungare, stante la cassa dell’Inps al limite), anche i valorosi paladini dell’uno vale uno dovranno capitolare. Pena la sparizione totale dalla mappa politica del Paese al prossimo turno elettorale, strada che comunque hanno già imboccato da tempo. E come faremo, se il Mef aveva contabilizzato ex ante circa 18 dei 40 miliardi in cui doveva sostanziarsi il prossimo Def come entrata garantita dall’Europa? Cosa si fa, in quel caso?



Due strade. Si prega in ginocchio la presidenza di turno tedesca di garantirci un anticipo più o meno pari a quella cifra, in modo da non sballare totalmente i conti. Oppure si rivede l’entità della Manovra. Anzi, c’è una terza strada, in realtà. Mantenere più o meno quell’ammontare, andando però alla ricerca di fondi alternativi. E con un Paese con il Pil in negativo a doppia cifra, una dinamica occupazionale da incubo che in primavera si riverbererà anche sul novero delle sofferenze bancarie proprio in tempi di redde rationem da parte delle autorità di vigilanza europee e il rischio di un nuovo rallentamento da lockdown, dove si trovano i soldi? Patrimoniale! D’altronde, signori, siamo il Paese in cui Giuliano Amato mise le mani nottetempo nei conti correnti di tutti noi, al fine di finanziare l’ingresso nell’euro. Volete non poter fare un qualcosa di simile, ovviamente addolcito nei modi e nelle forme da formali finalità pauperiste e egualitarie, di fronte a una pandemia che miete contagiati e vittime?



Forse Mario Draghi, fiutata l’aria dopo la sortita al Meeting di Rimini, è sparito dalla scena per un motivo: sta preparandosi a quella che possiamo definire Missione loden. Se non lo avete ancora capito, forse perché un po’ confusi e alterati nelle percezioni da uno spread da Paese quasi normale, siamo nel making of di una rivisitazione in peggio del 2011. Il Presidente di Confindustria ha parlato chiaro l’altro giorno, grattando via con la carta vetrata del realismo ogni possibile morbidezza diplomatica sfoggiata controvoglia finora: a gennaio ci attende un inferno, già nelle condizioni attuali. Dio non voglia che la pandemia peggiori e la seconda ondata imponga davvero blocchi più severi delle attività, produttive e dei servizi: a quel punto, saremmo totalmente alla deriva.

Perché signori, la Bce può tenerci lo spread artificialmente basso quanto vuole, può buttare altre centinaia di miliardi nel Pepp e prolungarlo fino al 2022. Ma il mercato, ovvero chi investe denaro suo e dei suoi clienti, non ha l’anello al naso. Certo, si basa sui rating ufficiali per decidere il bilanciamento dei portfolios di investimento obbligazionario e azionario, ma, al netto dell’investment grade statutario, poi opera nel cosiddetto cherry picking. Va di fiore in fiore, scaricando quello apparentemente splendido, ma che, se toccato, garantisce una dermatite da contatto degna dei fili dell’alta tensione per Wile Coyote. Lo so, in questi giorni in Rete si trova di tutto, addirittura fantasmagoriche analisi in cui il Btp sarebbe il nuovo bene rifugio, meglio del Bund, divenuta vetusta cartaccia al capolinea del suo ruolo di benchmark. Fate finta di niente, probabilmente i miasmi rilasciati dai gel igienizzanti per le mani di cui stiamo abusando hanno effetti lisergici su alcune persone. Altrimenti, certi deliri non si spiegano, se non ricorrendo a categorie cliniche. O analisi freudiane.

Citigroup ha già avvisato la sua clientela di scaricare subito Bonos spagnoli, tanto per gradire. Non a caso, il nostro spread verso i titoli iberici è calato. Ma non perché noi stiamo meglio, solo perché Madrid sta peggio. Molto peggio. Fidatevi, passare da 130 a 200 punti base è un attimo. È il contrario che costa fatica. E miliardi di Francoforte. Basta soltanto che l’ammutinamento di fine estate in seno al board dell’Eurotower porti a un ritardo o un ridimensionamento del piano di implementazione del Pepp come inteso da Christine Lagarde per guadagnare tempo e calciare ancora un po’ in avanti il barattolo. E accadrà, probabilmente. Perché la dinamica è la stessa che ha portato all’attuale impasse sul Recovery fund in sede di Europarlamento: a sentire gli esponenti di governo solo fino alla scorsa settimana, tutto era garantito e ipotecato. Il Mes? Non serve, abbiamo il Recovery Fund, concentriamoci su quello. Eccoli serviti, barba e capelli.

Il problema è che la tosatura non la rischiano solo lor signori a livello elettorale, bensì il Paese all’atto pratico di un avvitamento mortale in una spirale ribassista auto-alimentante. Perché se già parti da liabilities macro enormi come le nostre e unisci inefficienze varie, fisco folle, burocrazia centrafricana, centralismo bizantino e percezione di affidabilità politica pari a zero, ci vuole poco a precipitare. Soprattutto se tutto intorno a te, il palazzo intero sta bruciando. Alcune stanze ormai in maniera palese, altre alle prese con i primi focolai, magari solo una tenda o un tappeto. Nessuno, però, è al sicuro. Nessuno. Classica situazione da si salvi chi può. Ovvero, ognuno pensa prima per sé. Poi, se si riesce, anche agli altri. E ringraziamo il cielo che la Germania, nonostante gli sproloqui di chi vorrebbe cancellarla dalla faccia delle Terra in nome della politeia che salverà il mondo, per ora ha ancora bisogno della subfornitura di componentistica di qualità del Nord Italia per la sua industria: se però sarà rallentamento generale o, peggio, se si opterà per una supply chain meno di prestigio, ma più affidabile e a basso costo – delocalizzazione delle forniture -, allora prepariamoci pure a un’ipotesi di ristrutturazione forzata del debito. Senza tante sfumature possibili, perché a quel punto la Bce potrebbe comprare anche l’aria e accettare il Colosseo come collaterale, ma sarebbe inutile, una costosa eutanasia del buonsenso in perfetto stile giapponese.

L’ho scritto negli ultimi due articoli, lo ripeto oggi: non fatevi fregare dallo spread basso, né dalle rassicurazione dell’Abi rispetto alla salute reale del comparto bancario e del meccanismo di trasmissione reale del credito del Paese. Solo solo illusioni ottiche da dipendenza totale dalla Bce. Se qualcuno soltanto allenta la spina nell’interruttore, senza per forza doverla staccare, il film si interromperà di colpo. E a irrompere non saranno i trailers o la maschera che vende la Bomboniera, bensì la realtà. Giunta la quale, vi invito a chiedere agli emittenti seriali di debito di provare ancora a finanziarsi sul mercato con le aste, schifando il Mes. E a quel punto, solo a quel punto, arriverà il cavaliere bianco per cercare di governare il caos. Nome in codice, missione Loden.