I punti di snodo della storia (con la “s” minuscola, per carità), gli eventi spartiacque, spesso passano quasi inosservati. O, meglio, si mimetizzano con i colori della normalità, come commandos nella savana. Non commettiamo l’errore di non coglierli nella loro importanza, ancorché contingente. Perché la conferenza stampa a sorpresa che l’ex super-procuratore, Robert Mueller, l’uomo del Russiagate, ha tenuto mercoledì nel tardo pomeriggio, fa parte a tutti effetti e con i crismi massimi di quegli eventi.



Avete ancora dubbi sull’esistenza del Deep State e sulla sua capacità di intervenire nelle scelte politiche – quelle vere, quelle che contano – degli Stati Uniti? Bene, levatevi quei dubbi, perché il super-procuratore Mueller ne è stato la testimonianza vivente. Provo a spiegarmi, partendo da un presupposto fondamentale: Robert Mueller è stato capo dell’Fbi. E nonostante la vulgata comune, anche corroborata dalla mitologia hollywoodiana, veda la Cia come elemento di potere o contropotere paralleli negli Usa, sono i “federali” a comparire (e scomparire) in tutte le trame che davvero hanno pesato sugli accadimenti dal Dopoguerra in poi. Non per complottismo, bensì per loro mandato statutario: per capirci, è l’Fbi quella incaricata di fare il vero lavoro sporco, quando serve. E il nostro “eroe” ha sovrinteso a quelle dinamiche dal 2001 al 2013. Nel pieno del Patriot Act e della lotta globale al terrorismo, godendosi anche 5 anni di post crisi finanziaria da una delle sedie più potenti d’America.



E attenzione, sono sempre i federali a intervenire quando la Sec scopre qualcosa che non va a Wall Street, non la Cia. Quindi, non fatevi irretire dall’eleganza quasi britannica e dai modi impeccabili, degni di un George Peppard: Robert Mueller è uno squalo con una foresta amazzonica di pelo sullo stomaco. E cosa ha detto, mercoledì? “Se avessimo potuto dire che Trump non ha commesso reati, l’avremmo detto”. Di fatto, un colpo di coda clamoroso dopo la pubblicazione delle risultanze dell’inchiesta da 25 milioni di dollari che ha coordinato riguardo eventuali collusioni del Presidente con la Russia, sfociate a loro volta in reati federali interni. Mueller non dice che Trump è innocente, anzi. E lo fa con la più classica delle forme sibilline: dice che non è innocente ma anche che non si può dirlo.



Mancano le prove? No, per Mueller non si può dire perché lo ha di fatto deciso il Dipartimento della Giustizia, organo che proprio nel corso della conferenza stampa ha annunciato di abbandonare. Seduta stante. Di fatto, Mueller ha ribaltato l’assunto in base al quale l’indagine non era giunta ad alcuna conclusione fattuale sulla colpevolezza di Trump, anzi rinforzandone le evidenze. E, proprio per questo, Mueller ha confermato che non testimonierà di fronte al Congresso, ritenendolo inutile. Un’accusa di una pesantezza politica devastante. Ma non basta, perché se il presidente Trump non ha perso tempo nel twittare la sua gioia per quella che riteneva una conferma della sua trasparenza ed estraneità, oltretutto giunta da fonte di primissimo livello, è in casa dei Democratici che la testimonianza di Mueller rischia di creare il caos maggiore. Non foss’altro per il dibattito in atto riguardo la necessità, almeno per l’ala massimalista e più di sinistra del partito, proprio di procedere con una procedura di impeachment per il Presidente alla Camera, visto che il dossier sul Russiagate ha lasciato aperto più di un dubbio. Come, di fatto, confermato platealmente da Mueller l’altro ieri.

Ma proprio una delle figure cardine del Partito, nonché Speaker della Camera, Nancy Pelosi – una che di magheggi al Dipartimento della Giustizia ne sa qualcosa – ha messo in guardia i colleghi dal trappolone in cui si sostanzierebbe la richiesta di incriminazione per l’inquilino della Casa Bianca. Quell’atto, infatti, non solo tramuterebbe Trump in martire di una persecuzione politica agli occhi di moltissima parte dell’opinione pubblica, ma pare destinata a venire bloccata dal Senato, a guida Repubblicana, una volta che vi giunga. E fatti i debiti conti sulle tempistiche medie richiesta da un simile atto, la “vendetta” del Senato arriverebbe più o meno a ridosso del voto presidenziale dell’autunno 2020. Oltre, ovviamente, a monopolizzare l’intera campagna elettorale in uno scontro ideologico e polarizzato, ancora una volta, sull’ossessione russa. Un azzardo politico enorme, insomma.

Ma con la sua testimonianza, di fatto, Mueller ha fatto un assist irresistibile ai Democratici in tal senso, soprattutto verso quell’ala più estrema – quella dei Sanders e della Ocasio-Cortez, per capirci – che ha come priorità, prima di tutto, quella di bruciare i candidati moderati e dialoganti. Joe Biden, in testa. Uno che, tra l’altro, preferisce stare il più possibile distante dal Dipartimento della Giustizia, soprattutto ora che è ufficialmente in corsa, per alcune faccende ancora in sospeso. Ma c’è un altro risvolto del fulmine politico a ciel sereno scagliato da Mueller che deve far riflettere: la tempistica, fondamentale in qualsiasi operazione di destabilizzazione degna di questo nome.

La conferenza stampa, infatti, è arrivata a tre settimane abbondanti dalla pubblicazione delle risultanze (in realtà, solo del loro sunto reso pubblico, la questione della pubblicazione integrale è materia di scontro parlamentare da allora) del rapporto sul Russiagate e in piena escalation del conflitto commerciale con la Cina, proprio poche ore dopo la minaccia di Pechino ancora rispetto al capitolo Huawei. Ora, ragionate un attimo con me: quale messaggio può essere arrivato a Xi Jinping e al suo entourage nel Politburo, dalle parole di Mueller, formalmente non richieste, prive di reali accuse sostanziate ma riferite da un uomo che per almeno un anno e mezzo ha avuto nelle sue mani il destino di Donald Trump? Forse, proprio facendo riferimento alla tentazione di impeachment dei Democratici, che al tavolo del negoziati commerciali a breve potrebbe trovare un’anatra del tutto zoppa, un uomo destinato a uscire di scena per far posto a qualcuno di meno oltranzista e più dialogante.

Insomma, Pechino potrebbe essere a sua volta tentata a forzare la mano e a non cedere alle minacce, facendosi forte della convinzione che comunque Trump sia sull’orlo di un precipizio politico interno. E della sua fine. Di fatto, Mueller in questo caso avrebbe reso molto più difficile, se non impossibile, il raggiungimento di un accordo con Pechino. E, conseguenza diretta, creato così i prodromi per un potenziale crash dei mercati, già decisamente nervosi da qualche giorno e con criticità macro e di eccesso finanziario ormai pronte a esplodere. A partire proprio dalla Cina, dopo il salvataggio in extremis della prima banca della Mongolia, Baoshang Bank, di cui ho parlato l’altro giorno. Ora, vi ho già detto che quell’emergenza ha fatto salire i costi di finanziamento interbancario e i rendimenti obbligazionari, ma guardate cosa è successo sempre mercoledì, quasi in contemporanea perfetta con la conferenza stampa di Robert Mueller.

Quanto accaduto ha creato un panico tale, ovviamente silenziato all’esterno dalla censura cinese, la quale però non può oscurare i terminali dei traders di tutto il mondo, da costringere la Pboc a iniettare nel sistema interbancario liquidità d’emergenza per un controvalore di 250 miliardi di yuan, circa 36 miliardi di dollari. Di colpo, in una sola soluzione e tutti attraverso operazioni open-markets. Cosa significa? Che è bastato che la 50ma banca cinese (e non classificata fra quelle a più alto rischio, almeno sui non performing loans) andasse a zampe all’aria per insolvenza per creare dubbi a livello globale sull’intera stabilità e solvibilità del sistema del credito cinese. Il tutto, però, senza lasciare che lo yuan fluttuasse liberamente al ribasso. Ulteriore sintomo di panico generalizzato, di un qualcosa che pare ormai pronto a sfuggire al controllo. Un contesto che, ovviamente, avrebbe bisogno di tutto tranne che delle parole destabilizzanti di Robert Mueller, sia all’interno degli Usa che nella lettura esterna del principale competitor.

E tanto per farvi capire a quale punto di avvicinamento al burrone ci troviamo, questo altro grafico ci mostra come il mercato dei tassi stia già prezzando oggi l’atteggiamento monetario più accomodante da parte delle Fed dall’ottobre 2008, subito dopo il crollo di Lehman Brothers per capirci.

Cosa significa? Che per spingere davvero la Federal Reserve a intervenire con il badile (come servirebbe per evitare tonfi), è ormai necessario un evento di portata straordinaria. Epocale. Signori, siamo ormai alla fase finale dell’operazione di “incidente controllato” di cui vi parlo ormai da mesi e mesi e di cui l’elezione di Donald Trump è stata il detonatore e l’accelerante. Sperate, davvero stavolta, che tutto vada secondo i piani. Altrimenti sarà il caos. Ma il caos quello vero, non quella passeggiata nel parco del 2011.