La scorsa settimana facevo notare come il titolo di Stato greco a due anni fosse sceso addirittura in territorio negativo a livello di rendimento, un successo assolutamente impensabile soltanto pochi anni fa. Tutto in ordine, quindi. La Grecia è rinata dalle sue rovine e ceneri, come la fenice. E l’azione della Bce sta dando sempre più i suoi frutti, a livello di compressione artificiale dei costi di finanziamento sovrano. D’altronde, basti vedere i continui record al ribasso del nostro yield sul Btp decennale per avere diretta conferma del trend, al netto di un Paese alle prese con criticità macro e scostamenti di bilancio che presupporrebbero ben altri premi di rischio. Ma come cantavano i Guns’n’roses in November rain, occorre prendere atto che nothing lasts forever. Nulla dura per sempre. Nemmeno i giochi di specchi delle Banche centrali. Le quali, per quanto munifiche e apparentemente in grado di risolvere ogni criticità semplicemente schiacciando il tasto press, ogni tanto devono fermarsi loro stesse e fare i conti con la realtà. Brutale.



È quanto accaduto venerdì al Single supervisory mechanism, il braccio operativo di supervisione bancaria della Bce. Il quale, immagino dopo lunga e dolorosa discussione interna, ha dovuto bocciare la richiesta di Piraeus Bank rispetto alla possibilità di procedere al pagamento di un coupon legato a CoCo bonds. Detta così, mi rendo conto che possa apparire un ragionamento espresso in arabo. Anzi, in dialetto stretto del Sahel. Facciamola facile, allora. Primo, cosa siano i CoCo bonds l’ho spiegato molte volte ma giova ricordarlo ancora. Si tratta di obbligazioni ibride convertibili che, in determinate condizioni, si trasformano in azioni, quindi in capitale della banca che li ha emessi, alleggerendone sostanzialmente l’esposizione debitoria. Quando, per esempio, la ratio Core Tier 1, il maggiore indicatore della solidità patrimoniale, scivola sotto una soglia prefissata (il 7% o il 5%). Ovviamente, in cambio di questo maggiore rischio che viene addossato all’investitore sono previsti dei rendimenti più elevati.



Per esempio, si possono emettere titoli di questo tipo, ponendo una scadenza a 10 anni e attribuendo alla cedola un premio plus dell’1,5-2,5% sul tasso d’interesse degli altri titoli corrispondenti. Nel caso in cui una congiuntura particolarmente sfavorevole eroda la ratio Core Tier 1 sotto il livello prefissato delle attività ponderate per il rischio, scatta quindi la conversione dei CoCo bonds che si trasformano in azioni della banca e quindi in capitale, rafforzando l’istituto. Con l’effetto collaterale, però, che l’immissione automatica di titoli sul mercato possa diluire il valore delle azioni stesse, di fatto a forte rischio di ribasso. Se non crollo. Ma trattandosi di misura emergenziale, occorre operare sulle priorità: e così facendo, dal punto di vista patrimoniale, l’istituto si troverà rafforzato. Almeno formalmente e in punta di bilancio.



Insomma, un trucco contabile. Finanza creativa. Rischiosa, ma, in tempi di profittabilità bancaria messa sempre più a repentaglio dai tassi negativi sui depositi e di rendimenti obbligazionari da miseria per chi investe, le due controparti dell’affare si trovano d’accordo sul principio che il gioco valga la candela. Anche perché, in sé, parliamo di un controvalore non enorme come numero assoluto, circa 110 miliardi di euro, ma con un grosso vulnus: quell’ammontare di bond con forte componente di rischio è incluso nel calcolo del core capital degli istituti. Giacciono fianco a fianco, ad esempio, con qualche centinaio di miliardi di sofferenze bancarie.

Quali i rischi, insomma? Primo, è il classico strumento finanziario a doppio taglio. Da un lato garantisce un incremento rapido delle ratio di capitale e una diversificazione delle fonti di finanziamento, dall’altro però rappresenta un asset ad alto rischio che può innescare un effetto domino sull’equity e sugli altri bond, formalmente meno rischiosi, emessi dalla stessa entità. In questo caso, la banca. Insomma, un loro potenziale default ha, di fatto, conseguenze per il resto della struttura di capitale, attraverso il contagio diretto. Secondo, le stesse agenzie di rating assegnano a queste obbligazioni una componente equity del 50%, di fatto creando un unicum nel comparto, visto che l’investitore può perdere oltre all’intero coupon anche parte del principale, se la ratio di capitale dell’emittente scende sotto quota 7% o 5%. Terzo, l’aumento del loro peso negli anni recenti. Nel 2011, le banche europee avevano emesso circa 10 miliardi di euro di controvalore di questi strumenti, con returns in grado di raggiungere il 10%. Di fatto, pareva un business senza rischi connessi e grandemente remunerativo. Arrivando solo al 2017, quel controvalore di emissione è salito a più di 70 miliardi di euro e con rendimenti già scesi al 4%. Cos’è accaduto? Semplice, il whatever it takes. L’assunto era per tutti lo stesso: con il backstop sistemico della Bce a coprire le spalle, non esiste rischio. Il classico investimento no brainer, nulla su cui riflettere o ponderare troppo.

E in effetti, per trimestri e trimestri è stato così. Adesso, però, ecco arrivare il campanello d’allarme. E ancora dalla Grecia. Se infatti alla fine di questo mese la Bce – come finora ha sempre fatto – confermerà il parere preventivo già fornito dal Ssm e bloccherà il pagamento dei 165 milioni di euro del coupon legato a quei CoCo bonds, Piraeus Bank potrebbe essere costretta a convertire quella carta in titoli azionari, dando appunto vita a un processo di diluizione che porterebbe con sé una sgradevole conseguenza, oltre a perdite per gli azionisti dell’istituto. Ovvero, la quota di partecipazione dell’Hellenic Financial Stability Fund (Hfsf) nella banca salirebbe dall’attuale 26% al 61%. E di cosa si tratta? L’Hfsf è un veicolo a scopo speciale (Special Purpose Vehicle, Spv) creato nel 2010 con lo scopo di stabilizzare il sistema bancario, squassato dalla crisi debitoria. È un’entità di diritto privato a totale controllo statale, il cui atto statutario nel luglio di 10 anni fa è stato garantito dall’ammissione di 50 miliardi di euro da parte della European financial stability facility per salvare l’intero comparto creditizio ellenico. Rappresentanti del Hfsf sono presenti nel board della Banca nazionale greca, di Alpha Bank, di Eurobank-Ergasias e appunto di Piraeus Bank. Di più, nonostante all’inizio di quest’anno la capitalizzazione totale di mercato della banca fosse pari a meno di 1 miliardo di euro, nel dicembre del 2022 è previsto che l’Hfsf possa convertire 2 miliardi di bond perpetui in titoli azionari proprio di Piraeus Bank.

E adesso, cosa si fa? La situazione non è affatto gradevole, principalmente per il rischio di creazione dell’ennesimo precedente, in caso la Bce scelga ancora e giocoforza di operare in deroga a regola e prerogative e smentisca o – come è più probabile – congeli con riserva il parere del Ssm. La scadenza per il pagamento di quel coupon, in effetti, è dietro l’angolo: 2 dicembre. E cosa ancora più sgradevole, appunto per l’effetto Monte dei Paschi che si verrebbe a generare in caso di trasformazione dei CoCo bonds in equity con relativa diluizione del valore dei titoli, la pressoché totalità di quelle obbligazioni ibride è appunto detenuta unicamente dall’Hellenic financial stability fund, visto che la Piraeus Bank operò allegramente l’emissione nel 2015, quando il fondo per la stabilità del sistema bancario greco pompò denaro a pioggia nell’istituto per finanziarne la ricapitalizzazione. Non a caso, lo scorso mese quando cominciò a circolare l’indiscrezione riguardo un possibile parere negativo del Ssm relativamente al pagamento del coupon, il titolo di Piraeus – una delle quattro banche principali della Grecia – crollò del 10%, beneficiando poi però del generale clima di volemose bene imposto dalla Bce ai mercati europei a colpi di rassicurazioni e promesse.

Ora, però, c’è appunto il rischio di creazione di un precedente che grava sulla decisione che Francoforte dovrà prendere entro fine mese. Un qualcosa che va al di là della stessa tenuta dell’Hfsf, perché rischia di impattare a livello sistemico e di effetto contagio sull’intero comparto creditizio ellenico. Il quale, a oggi, sconta un enorme, duplice plus di rischio. Primo, al fine di rendere efficace il Pepp, la Bce ha incluso il debito pubblico greco nella platea del collaterale accettato per operazioni di rifinanziamento. Se salta il banco di Piraeus, quella deroga reggerà ancora o i falchi in seno al board imporranno una revisione immediata? Secondo, sempre lo scorso marzo la stessa Bce ha eliminato il cap di detenzione massima di debito pubblico per le banche elleniche, di fatto un invito esplicito all’azzardo morale e al ricadere nella trappola del doom loop. E questi grafici mettono indirettamente in prospettiva il rischio: se infatti nella primavera del 2019, quando ancora era in vigore il tetto massimo della Bce sulle detenzioni di debito domestico da parte delle banche greche, queste ultime “vantavano” un livello percentuale su assets totali in area 4%, superiore a quello di Germania, Francia e Irlanda, quale può essere stato lo sviluppo prospettico a oggi, se come mostra il secondo grafico un altro campione del doom loop come l’Italia è passata nell’arco temporale di un anno e mezzo dal 10% circa di detenzioni sovrane su assets totali al 14% del 30 settembre scorso?

Il tutto, appunto, alla luce del liberi tutti emergenzialmente sancito lo scorso marzo proprio dalla Bce, il cui braccio di supervisione ora è paradossalmente chiamato a dire basta a certe follie fomentate dalla casamadre. Meraviglie del Qe e del denaro a costo zero. Andremo avanti ancora molto con la manfrina della Grecia povera vittima del rigorismo tedesco o finalmente cominceremo, giunti come siamo un’altra volta sul ciglio del burrone per i medesimi azzardi ed errori del medesimo protagonista, a dire le cose come stanno? Ovvero, certi sistemi – come quello ellenico – la Troika non solo se la cercano. Ma se la meritano.

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