Nel mondo anglosassone viene definito 11th hour development, lo sviluppo dell’ultimo secondo. Evergrande, infatti, ha aspettato fino a quel momento prima di inviare gli 83,5 milioni di dollari dovuti per il coupon scaduto un mese fa al trustee che fa riferimento ai bond denominati in dollari. Ma lo ha fatto. Proprio all’alba dell’ultimo giorno del periodo di grazia, i 30 giorni terminati i quali i detentori di bond esteri avrebbero potuto emettere la nota di default sull’interesse non pagato. Signore e signori, la Lehman cinese è stata scongiurata. Il prezzo? Solo 83,5 milioni di dollari.
Ovviamente, questo non risolve il problema di base. L’indebitamento di Evergrande rimane, così come lo spillover in atto su un mercato immobiliare che in Cina sta vivendo la sua crisi più grande di sempre: ma l’evento di credito non c’è stato, il contagio finanziario per ora è stato contenuto. Pechino la sua Lehman l’ha evitata, New York no. Sembra poco ma non lo è. Perché i simboli contano, lo stigma resta. E Xi Jinping le sue carte le ha giocate da consumato pokerista, attendendo il momento propizio: perché la questione legata a quegli 83,5 milioni di dollari era risolta da tempo. Le istituzioni cinesi erano pronte con il cash in mano, stante la facilità con cui si sostanziano certe partite di giro sui bilanci di aziende solo apparentemente private in un regime di monopolio statale de facto. Ma ovviamente una cosa è pagare in un giorno qualsiasi, lasciando in controluce le impronte digitali del debito e del colpevole ritardo. Un’altra staccare l’assegno al trustee a meno di 24 ore dal crollo in Borsa del titolo Evergrande al ritorno in contrattazione dopo due settimane di stop a Hong Kong: un tonfo arrivato fino a -14% e causato dall’esito negativo della tentata vendita del 50,1% del pacchetto di Evergrande Property Services alla Hopson Development Holdings per 20,04 miliardi di Hong Kong dollars (2,58 miliardi di dollari). Il segnale, in questo caso, resta. E duplice.
Da un lato, uno schiaffo in faccia a tutti i titoli di giornale del mondo che cominciavano il conto alla rovescia verso il default ufficiale di Evergrande, a quel punto distante solo le 24 ore che dividevano l’azienda dalla fine del grace period di 30 giorni, stante il mancato introito dalla vendita sfumata. Dall’altro, umiliare chi pensava di utilizzare il naufragio pilotato della trattativa incentrata sulla ribelle Hong Kong come arma finanziaria e geopolitica insieme. Guarda caso, nella notte fra giovedì e ieri, mentre il trustee che gestisce gli interessi dei detentori di bond esteri di Evergrande riceveva il dovuto, Joe Biden tuonava: Gli Usa difenderanno Taiwan in caso di attacco della Cina. Peggior dissimulazione del dolore che in realtà si stava patendo non era mai stata mostrata, quantomeno così en plein air.
Attenzione, però, agli scossoni di assestamento. Il default appare evitato, ma le operazioni di Evergrande sono di fatto congelate, tanto che le vendite immobiliari nel picco della stagione si sono contratte del 97%: tra il 1 settembre e il 20 ottobre, le cosiddette contracted sales, la fonte chiave di liquidità per il comparto, hanno registrato un controvalore di soli 3,65 miliardi di yuan (571 milioni di dollari) contro i 142 miliardi di yuan incassati nel medesimo arco temporale dello scorso anno. Insomma, un disastro. Il quale va a intaccare un settore chiave dell’economia cinese, stante il 26% di peso delle costruzioni-real estate sul Pil del Dragone e a impattare con i 300 miliardi di esposizione debitoria di Evergrande sul corpaccione da 50 trilioni di dollari del sistema finanziario cinese nel suo complesso. Cartolarizzazioni allegre, esposizioni basate unicamente su leva, rendimenti a forte rischio di ulteriore esplosione: finora, però, tutto controllato.
Certo, lo spread medio dell’alto rendimento cinese denominato in dollari ha toccato il 17%, il massimo da dieci anni a questa parte e la conseguenza appare chiara: una serie di default già garantiti su scadenze che riguardano piccoli costruttori, incapaci di muovere volumi e interassamento politico al pari di Evegrande. Sinic Holdings e Fantasia Holdings, di fatto, hanno già saltato scadenze, entrando in area di default selettivo nelle classificazioni delle agenzie di rating. Il sole, però, è sorto ugualmente. Il mondo non è terminato in un armageddon. La Lehman cinese non si è sostanziata. E, anzi, il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo, quando si è scoperto che il rallentamento dell’economia del Dragone – quantomeno, a livello ufficiale – si è limitato al 4,9%.
Piaccia o meno, la locomotiva del mondo sta in Asia. Ed è comunista, quantomeno formalmente e in base alle classificazioni ideologico-ottocentesche tornate prepotentemente di moda in questo periodo di contrapposizioni a scopo elettorale. Soltanto da qui alla fine dell’anno sono 15 le scadenze obbligazionarie su coupon o interessi che riguardano soggetti medio-piccoli del comparto real estate cinese: si è cominciato ieri con i 941 milioni di yuan su un bond di Yango Group e si finirà il 28 dicembre con gli 800 milioni facenti capo a una note del Guangxi Construction Engineering Group. Stando all’allarmismo interessato di certi media, ci sarebbe il rischio potenziale di una Lehman al giorno.
Sapete perché tutto questo clamore, senza un minimo di visione in prospettiva di quanto sta accadendo? Per due motivi. Il primo che lo mostra questo grafico, dal quale si desume come il Pil statunitense per il 3° trimestre sia passato dal 6% registrato dal GDPNow della Fed di Atlanta solo a inizio agosto allo 0,5% registrato il 19 ottobre scorso. E attenzione, perché la revisione è arrivata solo a quattro giorni dalla precedente, quella che portò la crescita stimata dell’economia americana dall’1,3% all’1,2% non più tardi del 15 ottobre. Ora siamo in avvicinamento all’area della contrazione ufficiale: il 27 ottobre ci sarà il nuovo aggiornamento, staremo a vedere. Non male come risultato: dal 6% allo 0,5% in due mesi e mezzo. Stante i numeri in discussioni e la dinamica, ring any bells, come dicono gli inglesi? Tradotto: vi suona qualche campanello pericolosamente familiare?
Secondo, la Cina ha ufficialmente in mano il timone del mondo. Piaccia o meno, stante il fatto che sia stata proprio l’avidità da globalizzazione selvaggia dell’Occidente a offrirglielo su un piatto d’argento. E questo va nascosto, negato, travisato. Occorre ricorrere a cortine fumogene, millanterie, false flags e armamentari ideologici di ogni tipo. Ma resta un fatto: Pechino ha in mano il banco. E il Plenum del Partito comunista previsto dall’8 all’11 novembre comunicherà al mondo in base a quali regole d’ingaggio si dipaneranno i prossimi anni di contrapposizione sempre più netta e frontale. E non mesi o trimestri, parliamo di decenni.
Insomma, è iniziata una nuova Era. E l’America – intesa come ruolo egemone del dollaro – non vuole farsene una ragione. Almeno noi, però, d’ora in poi cerchiamo di essere seri e realisti. E finiamola con questa pagliacciata di Evegrande. Perché la ciccia sta altrove.
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