Può apparire folle, quantomeno con i missili russi piovuti a meno di 30 chilometri dal confine polacco, ma la crisi ucraina non è già più la principale preoccupazione dei mercati. Lo testimonia il -5% dell’indice Hang Seng di Hong Kong nella prima seduta della settimana. Il nuovo focolaio di Covid che ha spedito in lockdown i 17,5 milioni di abitanti della città di Shenzhen è il nuovo epicentro globale, soprattutto da quando Foxconn ha annunciato la chiusura totale della fabbrica in cui si producono gli iPhone. Se per caso questa ondata di contagi, oltre 1.000 al giorno e in grado di interessare già 16 Province, dovesse costringere le autorità a chiudere il porto di Shenzhen, uno dei principali terminal del commercio mondiale, saremmo di fronte davvero alla tempesta perfetta: inflazione, sanzioni e blocco per pandemia. Praticamente, la paralisi totale.
Insomma, volendo guardare per un attimo il mondo dal buco della serratura europeo, il rischio di instabilità alimentare paventato da Emmanuel Macron al vertice di Versailles non avrebbe più come arco temporale potenziale 12-18 mesi, ma una scadenza drammaticamente più ravvicinata. Il tutto in contesto che vede la Cina stranamente approcciata dagli Usa come componente fondamentale di uno sforzo diplomatico per giungere a una tregua in Ucraina, quasi a voler dimostrare al mondo come – dopo il riscaldamento che ha coinvolto Europa e Israele – ora siano le squadre titolari a scendere in campo per la partita vera. E Washington, per una volta, pare aver scelto gli scacchi come specialità e non il poker. Blandire l’avversario in difficoltà, in attesa che il tallone d’Achille si scopra.
Sun Tzu mangia gli hamburger. E anche in questo caso, potrebbe non volerci molto. Perché prima dell’esplosione del nuovo mega-focolaio – o, forse, come sua emergenziale conseguenza – Pechino ha dovuto fare i conti con la prima contrazione in negativo del dato di prestito immobiliare a lungo termine, un qualcosa mai accaduto da quando viene tracciata la serie storica. Ovvero, da 15 anni. Di fatto, il proxy numero uno del mercato real estate segna bufera all’orizzonte. Non a caso, la Borsa si inabissa. E in questo caso la ragione è da ricercarsi nel combinato congiunto fra acutizzarsi delle dinamiche negative in un settore esiziale dell’economia, in grado da solo di far deragliare fin da ora le previsioni di Pil al 5,5% per quest’anno e timore di un delisting dei titoli cinesi dalle Borse americane come ampliamento del regime sanzionatorio, in caso Pechino fornisca armi o logistica a Mosca. Un mix che letteralmente facendo precipitare la situazione: il Golden Dragon del Nasdaq solo la scorsa settimana ha perso il 18%, un calo a 5 giorni che non fu registrato nemmeno al culmine della crisi del 2008.
Insomma, all’orizzonte si staglia la necessità di un taglio dei tassi in Cina. Drastico. O, quantomeno, di un netto intervento sui requisiti di riserva delle banche. Ma anche in questo caso, attenzione al diavolo che si nasconde nei particolari. Il sentiment negativo di mercato verso assets cinesi alla fine è riuscito a penetrare la corazza dello yuan forte, tanto che la valuta cinese onshore venerdì scorso si è deprezzata dello 0,5% intraday, il peggior risultato giornaliero da 6 settimane. Se per caso il virus dovesse portare a una paralisi dell’export cinese, la sell-off sulla valuta non potrebbe che peggiorare. E sempre venerdì le autorità di Pechino hanno reso noto il dato dei depositi interni in valuta estera, il quale a sua volta ha toccato il record assoluto. Tradotto, nonostante tutto la Cina annega nei dollari. Quindi, un possibile intervento della Banca centrale per sostenere l’economia si prefigura come limitato, quantomeno se si vuole evitare una spirale creditizia che mandi totalmente fuori controllo la dinamica dei prezzi.
Per la prima volta dalla crisi finanziaria innescata da Lehman Brothers, la Cina appare veramente in un angolo. O, quantomeno, a un bivio che sperava decisamente di poter evitare. Resta da capire quanto ci sia di strategia e quanto di reale nell’allarme Covid. Nel primo caso, si prefigurerebbe una sorta di lockdown da consumi che operi da congelatore dell’inflazione e del credito, in modo da creare spazio di manovra supplementare per interventi mirati della Pboc. Se invece ci trovassimo di fronte davvero a una situazione sanitaria che va fuori controllo, il blocco delle esportazioni e delle forniture globali potrebbe realmente mettere alla fame molti mercati. E portare a un’immediata prezzatura di totale sconnessione della supply chain che vedrebbe il tasso inflazionistico europeo volare in prospettiva di doppia cifra entro il terzo trimestre. A quel punto, la Bce non potrebbe che agire sui tassi e innescare un effetto cascata sui rendimenti obbligazionari. Praticamente, il caos all’orizzonte.
In tutto questo, gli Usa hanno deciso di assistere il paziente cinese. Non per spirito da crocerossina, bensì per capire prima di tutti quanto ci sia di reale e quanto di strumentale nel nuovo allarme pandemico. E regolarsi di conseguenza. Perché se Pechino dovesse davvero mostrare il fianco di una sua prima debolezza sistemica, la prospettiva di un incidente controllato che spinga gli Stati Uniti a imporre un regime sanzionatorio anche contro la Cina sarebbe tutt’altro che peregrina. A quel punto, chi si sarà attrezzato, potrà trarre beneficio dal caos. Chi sarà rimasto a contemplare il flusso di profughi al confine polacco, verrà travolto dal mercato e dagli eventi. Nemmeno a dirlo, l’Europa pare fin da ora candidata a questo secondo epilogo.
Attenzione, la grande partita a scacchi è iniziata. Vietato sbagliare anche solo una mossa. Perché l’America è già in campagna elettorale per il mid-term di novembre.
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