La Fed ha alzato i tassi di altri 25 punti base portandoli al 5,50%. Si tratta del livello più alto da 22 anni a questa parte, un costo del denaro superiore anche ai picchi raggiunti nel ciclo rialzista del 2006-2008, quando ci si fermò al 5,25%. Cosa accadde dopo, è storia nota. Qualcuno pagò per tutti. E morendo, salvò tutti. Ci si fermerà, adesso?



Ciò che conta, forse è quanto rappresentato nel grafico. Definito da un analista come Albert Edwards di Société Générale, the maddest macro chart I’ve seen in many years. Ma, soprattutto, la giustificazione della narrativa di soft landing che, ancora oggi, rende la possibilità di una recessione per l’economia Usa più lontana rispetto a quanto il tracollo PMI dell’altro giorno stia sentenziando per l’Europa.



La Fed ha rallentato a tavolino l’arrivo della recessione, insomma. Di fatto, una notevole porzione dei prestiti a tasso fisso del biennio pandemico (2020-2021) è ancora presente sotto forma di tasso variabile nei bilanci delle società. L’America corporate beneficia ancora di un lock-in di capitale ai tassi ultra-bassi di due anni fa, questo nonostante un aumento progressivo degli interessi sul capitale. In questo modo, le aziende hanno operato in reverse sulla curva dei rendimenti e oggi sono paradossalmente beneficiarie nette dell’aumento dei tassi. Allo stato attuale, le aziende stanno aumentando i profitti di circa il 5%, a fronte di un trend storico sul ciclo rialzista che arriva a un calo fino al 10% degli stessi. La Fed sta quindi continuando a operare come se nulla fosse per la semplice ragione che, alla prova dei fatti, il Sistema non solo regge. Ma beneficia di un ciclo rialzista che semplicemente non funziona più come ha storicamente fatto. Perché il pazzo mondo del Qe garantisce sempre scappatoie. E, soprattutto, ha sempre un terminale su cui scaricare i costi.



L’inflazione, infatti, è una tassa occulta per tutti. Ma, si sa, non colpisce tutti allo stesso modo. E in contemporanea con questo delirante carry trade sui tassi, le dinamiche salariali Usa sono stagnanti da due anni. Non a caso, come mostra questo secondo grafico, oggi il risk premium di Wall Street viaggia attorno ai minimi pre-Lehman, nonostante un backdrop macro-economico ormai in contrazione anche Oltreoceano.

Siamo al monetarismo faustiano. Ma, soprattutto, al libero mercato da Banca centrale. Ovvero, un ossimoro totale. Come la guerra umanitaria. Certo, queste dinamiche sono complesse da spiegare. E, soprattutto, nessuno si aspetta dalla stampa che si prenda lo scrupolo di scavare. Domani i titoli saranno per l’ennesimo rialzo e per la lotta all’inflazione che non conosce tregua. Volendo usare un francesismo, cazzate. La Fed si è imbarcata in questo tour de force senza precedenti e apparentemente azzardato semplicemente perché lo ha preparato a tavolino, sapendo che la corporate America e Wall Street non avrebbero patito. Anzi, tra poco, Mr. Smith avrà la sua dose di helicopter money da emergenza. E starà buono.

E la Bce, invece? E non pensiate che questo ragionamento sia meramente teorico. Le valanghe, infatti, nascono silenziose. E partono da lontano. Non a caso, si dice che a generarle sia la proverbiale palla di neve. E proprio come gli iceberg che diventano letali perché nascosti sotto al pelo dell’acqua al 90%, così questo arrivare all’improvviso spesso coglie di sorpresa gli escursionisti meno esperti. E attenti. Qui, però, c’è del metodo. La settimana scorsa, i depositi delle banche Usa hanno patito un calo pari a 78,7 miliardi di dollari, l’outflow maggiore dal 22 marzo scorso. Ovvero, subito dopo il tonfo di Silicon Valley Bank. Nel contempo, però, l’emorragia non era terminata per rinnovata fiducia nel sistema. Bensì, unicamente per l’uso strutturale delle facilities di finanziamento Fed. Quelle emergenziali. Così come l’inflazione era transitoria. Insomma, diciamo che la palla di neve sta rotolando da quattro mesi esatti. Non accorgersene appare sospetto. O sei cieco o sei connivente. In compenso, le medesime banche pronte a pagare interessi fuori mercato pur di garantirsi inflows di depositi vincolati, contraggono il credito. E molto. Ma non solo loro. In un’economia basata al 70% sui consumi personali, alcune voci di spesa sono storicamente canarini nella miniera. Fra queste, l’acquisto di auto a rate è lo pterodattilo.

Ed ecco che questo altro grafico ci mostra come non solo calino le richieste di finanziamento, stante un credit crunch che opera da dissuasore preventivo per detentori di rating traballanti, ma sia in netto e tendenziale aumento il tasso percentuale di richieste respinte. E negli Usa, quando vuoi mettere sull’attenti qualcuno rispetto alle intenzioni di terzi, gli si pone una domanda retorica: Compreresti un’auto usata da quell’uomo?. Ovvero, Oltreoceano una vettura di seconda mano non si nega a nessuno. Nemmeno a rate. Anzi, soprattutto a rate. Le finanziarie ci campano, i recupero crediti con ripossessioni anche. Le banche, soprattutto quelle locali, di fatto operano da finanziatore di ultima istanza proprio delle finanziarie. Le quali divengono brokers.


Dopo il caos subprime, i rischi sull’affidabilità creditizia e sulla natura di certe cartolarizzazioni hanno visto parecchi istituti minori ritirarsi dal casinò. E le grandi banche hanno fatto affari d’oro, acquisendo un mercato decisamente interessante e con accantonamenti comunque gestibili per una Big 4. Soprattutto con una Fed in modalità tassi a zero e bilancio in orbita. Poi arrivò il Covid e i sostegni al reddito di massa, l’helicopter money pandemica. E guarda caso, le richieste tornarono a crescere. Di nuovo auto usate per tutti. E ora? Ora lo pterodattilo nella miniera e la palla di neve stanno unendo le forze per dirci una cosa sola: prepariamoci a un’altra ondata di sostegni salariali e a un regime change sugli standard creditizi. Altrimenti, salta il sistema. Inteso come economia basata sui consumi. Ma il sottotesto ci dice altro: qualcuno deve pagare il prezzo all’alibi di turno. Chi? E quando, stante l’insipienza della variabile se.

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