Dal 13 dicembre, il flusso di gas dalla Libia all’Italia è interrotto. Lavori di manutenzione non programmati al complesso di Mellitah sul versante libico di Greenstream. E per quanto le autorità di Tripoli quantifichino lo stop in pochi giorni, il segnale non appare dei più incoraggianti. Perché fra sei mesi la medesima pipeline andrà nuovamente in manutenzione – stavolta programmata – e con essa quella algerina di Transmed. Già nei primi mesi di dicembre, la Libia ha esportato circa un settimo della capacità di Greenstream, tanto che sia la utility nazionale libica Noc che Eni hanno dovuto prendere atto della difficoltà nel gestire la sempre maggiore domanda interna.
Contestualmente, Noc ha reso nota la necessità in tal senso di investimenti per miliardi al fine di garantire l’export di forniture. Dopo 24 ore scopriamo un accordo da 400 milioni di euro per 5 anni con Gunvor che vede Sace come garante e Unicredit come Global Coordinator al fine di garantire forniture di gas naturale e LNG alle industrie italiane per sostenere l’esportazione di beni e servizi italiani all’estero. Gunvor è un trader energetico leader in Europa, di fatto riconducibile a Cipro ma con uffici e sedi operative in mezzo mondo. Co-fondata da un russo. E cos’è invece Sace?
Sace è il gruppo assicurativo-finanziario direttamente controllato dal Mef e specializzato nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale. E non più tardi del 20 settembre scorso, un accordo simile – ma per un controvalore di 550 milioni – Sace lo ha siglato con l’altro grande trader europeo di gas, l’olandese Vitol. Insomma, Roma sta silenziosamente seguendo le orme di Berlino.
Certo, i volumi di investimenti nei piani di sostegno all’impresa sono decisamente differenti. Come d’altronde quelli di debito e deficit che permettono la spesa, al netto dei magheggi di bilancio tedeschi. Ma il segnale è chiaro. L’affrancamento dalla Russia non è stato la passeggiata nel parco che ci hanno dipinto. L’Austria, infatti, oggi dipende dal gas russo per il 90%. A febbraio 2022 per il 79%. E il fatto che l’export di Mosca stia garantendo conti e crescita all’economia è ormai assodato, persino fra i più duri critici del Cremlino. I libici stanno solo tirando sul prezzo, forzando la mano per ottenere investimenti? Oppure c’è qualcuno dietro a quella manutenzione non programmata, chiaramente intenzionato a inviare un segnale? Inoltre, il Niger è ormai protettorato russo. E da lì passa la pipeline che porta verso il Maghreb il gas della Nigeria. Dire Africa non significa più dire solo Cina. Ma anche Russia.
Ora date un’occhiata a questo link. Si tratta di un articolo del Financial Times dello scorso giugno. E cosa ci dice? Semplicemente che le stesse Gunvor e Vitol, con cui Sace stringe accordi per garantire gas alle nostre aziende, hanno sempre ignorato le sanzioni e continuato tranquillamente a comprare dalla Russia. Ognuno la pensi come vuole sull’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. Ma finiamola con questa ipocrisia suicida. E con la propaganda sulla pelle delle aziende. Perché la situazione in Europa non è affatto rosea. E non solo dal punto di vista energetico, di fatto esiziale in un momento di pesante contrazione della crescita economica e della produzione industriale.
Ora guardate questi due strappi dal Financial Times del 4 dicembre scorso.
Ho volutamente aspettato qualche giorno prima di trattare nuovamente l’argomento. Perché mi interessava vedere l’eco che la vicenda del colosso immobiliare austriaco Signa avrebbe trovato sulla nostra stampa. D’altronde, piaccia o meno ammetterlo, si tratta della peggior bancarotta del comparto in Europa dalla crisi subprime. Nel giardino di casa nostra. E invece, due articoletti. Silenzio tombale. Il Financial Times, no. A Londra, dove il real estate è sacro, hanno preso la cosa molto sul serio. E hanno scavato. Scoprendo ad esempio che, in linea con le migliori tradizioni dell’orchestra sul Titanic, negli ultimi mesi il debito di Signa era raddoppiato. Disperati tentativi di restare a galla. Che qualcuno ha continuato a foraggiare, però.
E se quanto scritto nella grafica principale vi fa paura, leggete la parte a mio avviso paradossalmente ancora più preoccupante. Si trova nei commenti. E sì, fa più paura di un liquidation value di soli 314 milioni, a fronte di un book value che solo a settembre era ancora di 2,8 miliardi (sintomo che la bolla sottostante è enorme. E non ancora emersa del tutto). Quando anche le banche hanno dovuto pronunciare il proverbiale no, stante requisiti regolatori minimi che avrebbero acceso le spie di allarme, ecco subentrare le compagnie assicurative. Le quali, libere dai lacciuoli bancari, hanno elargito. Quanto? Non si sa. Ma pare tanto. Pare circa 3 miliardi. Perché, come scrive il Financial Times, «le assicurazioni navigavano in mari di liquidità garantiti da trimestri infiniti di tassi ultra-bassi». E il timore è che sia talmente tanto da tramutare quell’esposizione in una potenziale – per ora tacitata, poi verrà negata – bomba innescata nel cuore del Sistema europeo. Eba e Bce mute. Giornali e tv muti. Forse proprio perché le assicurazioni sono esposte, oltre alle banche?
Tout se tient. Soprattutto i conflitti di interesse in seno a certi Cda degli organi di informazione. O dei social network. Non sarà che tanta fretta e tensione in sede europea sulla ratifica italiana del Mes, l’ultima all’appello ma necessaria per l’operatività del Fondo, sia legata al fatto che c’è la quasi certezza della sua attivazione per tenere a galla banche o assicurazioni da qualche parte in Europa? O, quantomeno, l’utilizzo del suo framework operativo, la cornice legale entro cui dar vita a un prestito-ponte che eviti un colossale effetto domino finanziario. Non sarebbe la prima volta in Europa. E anche nel primo caso, a scatenare lo tsunami fu una bolla immobiliare. Quella della Spagna di Zapatero, costata 50 miliardi per salvare gli istituti di credito iberici.
Attenzione a cosa andiamo cercando. Perché stavolta potremmo davvero trovarlo.
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