Lungi da me voler allarmare qualcuno. Non sia mai che la narrativa del va tutto bene, madama la marchesa possa crollare proprio adesso. Alla vigilia del 1 maggio.
Certo, il fatto che l’ultimo dato di crescita Usa abbia cristallizzato l’immagine di un’economia in piena stagflazione, forse di per sé già cozza con la retorica del soft landing. E del modello da seguire. Ma si sa, certe cose meglio non dirle. O, comunque, meglio farlo a voce bassa, se proprio non se ne può fare a meno.
In compenso, quel CPE statunitense un po’ infiammato fa pensare, se messo in relazione con questo. Ovvero, stando alla comparazione storica fra pattern dei prezzi negli anni Settanta e attuale, all’orizzonte ci sarebbe un’ondata inflattiva ancora più netta e drastica di quella che – apparentemente – ci stiamo mettendo alle spalle.
Due, a questo punto, gli ordini di criticità. Primo, capire cosa può generare un reflusso simile. Cos’ha generato la prima onda? Il combinato di Qe e deficit spending legato al Covid. Ora siamo in formale regime di Qt, ovvero le Banche centrali non comprano assets ma, anzi, li scaricano dal bilancio. E non ci sono programmi di sostegno emergenziale in atto, stante l’assenza di pandemie. In compenso, però, abbiamo Governi che non riescono a uscire dalla trappola per topi del debito. E con 72 Paesi che quest’anno vanno al voto, capite da soli che la tentazione elettorale di spesa allegra sia dietro l’angolo. Soprattutto nei Paesi dove il potere d’acquisto dei ceti medio e medio-basso è stato eroso in maniera più drastica dall’inflazione, arrivando alla carne viva dei risparmi per far fronte alle spese fisse.
Ma per generare un simile rimbalzo, serve altro. Serve molto di più. Serve un combinato che contempli uno shock energetico e uno sulla catena di fornitura, la supply chain globale. Ad esempio, lo Stretto di Hormuz bloccato e il petrolio sopra 100 dollari al barile. Impossibile? Fino a un mese fa, forse sì. Oggi? Proprio il 25 aprile, quando qui giocavamo a Don Camillo e Peppone fuori tempo massimo, il gigante minerario Bhp ha lanciato un takeover non concordato da 39 miliardi di dollari – all-share, ovvero tutto basato su azioni – per acquisire Anglo American PLC, di fatto generando non solo uno shake-up senza precedenti nel settore ma anche inviando un segnale al mercato del rame. Monopolio all’orizzonte. E i termini erano chiari. Prima dell’acquisizione, Anglo American PLC trasferirà le proprie controllate sudafricane agli azionisti acquirenti tramite uno spin-off. Insomma, grandi manovre. E condizioni blindate.
Ieri mattina, Anglo American PLC ha risposto picche. La motivazione? L’offerta sottovaluta gli assets e le potenzialità. Parliamo di 39 miliardi di dollari. Ma cos’è accaduto nel mezzo fra l’offerta e il rifiuto? La solita BlackRock è saltata fuori sostenendo che, affinché si incentivi l’attività di apertura e sfruttamento di nuove miniere, occorre che il rame raggiunga la quotazione di 12.000 dollari. Ovvero, un ulteriore 20% dal massimo della scorsa settimana. Se la Cina intendeva mettere in corner il mercato con i suoi acquisti monstre di inizio anno, ci è riuscita. E se il ciclo delle commodities dovesse davvero conoscere balzi strutturali di questa entità, di fatto generando shortage più o meno strategici (l’Opec già fiuta l’occasione, a occhio e croce), il primo fattore di rischio per una nuova fiammata sarebbe potenzialmente pronto a innescarsi.
E il commercio? Basta leggere le dichiarazioni del ministro degli Esteri cinese al termine dell’incontro con il suo omologo Usa: Le dinamiche nei rapporti stanno peggiorando. E si parlava appunto di negatività commerciali. Dazi. Sanzioni. Già in atto, in alcuni casi. O allo studio come quelle preannunciate sempre il 25 aprile da Janet Yellen nei confronti delle banche cinesi. Nel mezzo, un mercato diviso a metà fra chi esplode a rialzo e chi sprofonda dopo la presentazione delle earnings. E si sa, quando l’economia Usa flirta con la stagflazione sono i titoli energetici a tramutarsi in bene rifugio delle equities. Il tutto con rendimenti obbligazionari ormai ampiamente fuori controllo, quantomeno se letti attraverso la lente di Banche centrali che ancora si stanno trastullando con la data-dependency inflazionistica. Come poter sperare in una stagione di tagli, a fronte di quanto letto finora? I 100 punti base prospettati da De Guindos come obiettivo della Bce per il 2024, quando potranno sostanziarsi, se solo una di quelle due variabili dovesse entrare pienamente in gioco?
E come se questo non bastasse, ieri mattina il board della Bank of Japan è riuscito nella missione di acutizzare ulteriormente il deprezzamento dello yen, visto che dopo l’annuncio di tassi fermi, il cambio con il dollaro ha sfondato quota 156. Pronti a nuovi tagli entro fine anno, se necessario, ha fatto sapere la Banca centrale nipponica. Accompagnando però l’azzardo obbligato allo stress test di una riduzione dell’ammontare di acquisti mensili di bond. Nemmeno a dirlo, il mercato ha cominciato a contorcersi.
Siamo nel pieno del caos assoluto. Perfetto. Quasi creato in laboratorio, talmente promana da ogni più recondito anfratto del mercato. Ora manca soltanto la ciliegina sulla torta di una nuova ondata inflattiva in grande stile. Perché a quel punto, il cortocircuito sarà totale. E i rialzi obbligati dei tassi genereranno un tale crash di mercato da tramutare i prodromi di stagflazione in recessione prima e depressione poi. A tempo di record. Un morphing. A quel punto, addio alla data-dependency da (in)stabilità dei prezzi e sotto con il nuovo Qe a forza quattro. Nuovo debito da monetizzare, nuovo deficit da generare direttamente e sterilizzare a babbo morto.
Prendiamo l’Europa, ad esempio. Cosa può portare a un salvifico, nuovo congelamento delle regole di bilancio e del Patto di stabilità? Una crisi strutturale. Cosa ha chiesto Emmanuel Macron all’Europa? Basta guardare solo all’inflazione e si pensi alla crescita. Guarda caso, il Partito socialista francese ha avanzato la proposta di far finanziare la transizione green interamente attraverso processi di Qe. Mentre Macron vuole eurobond per tutto. Tout se tient. Speriamo, almeno. Perché stavolta le tessere del mosaico da far combaciare sono davvero tante.
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