Come preventivato, la Bce prende tempo. Dopo dieci rialzi consecutivi dei tassi di interesse, il Consiglio ha deciso per una pausa. Tasso di rifinanziamento principale al 4,5% e quello sui depositi al 4% fino a metà dicembre, stante la riunione senza decisioni di politica monetaria prevista per il mese prossimo. Insomma, wait and see.
Fin qui, l’ufficialità. Che però potete sentire e leggere ovunque. Se avete digitato su IlSussidiario.net, forse cercate altro. Eccovi accontentati, tanto per capire perché la Bce ha accolto questo mese e mezzo di inazione come una benedizione.
Cosa dite, c’è il rischio di una recessione nell’Eurozona? Sicuramente, la Francia si candida a una nuova ondata di proteste. Dopo i Gilet gialli e i cortei contro la riforma delle pensioni, ecco che il dato di settembre relativo alle vendite di diesel lungo le direttrici d’Oltralpe parla la lingua di una supply chain pressoché ferma. Un precipizio. O in Francia ormai la logistica si muove tutta alimentata a elettrico?
I dati CPI di manifattura e servizi dell’Eurozona sono impietosi. E il frazionale aumento dell’indice IFO tedesco è frutto solo di revisioni. Non a caso, l’Ue ha cominciato a mettere le mani avanti: in caso di necessità, il price cap energetico resterà. Come se fosse servito a qualcosa. Quantomeno strutturato com’era. E le necessità ci saranno, soprattutto se il Medio Oriente passerà dalle minacce ai fatti. Direzione Teheran. Magari con una capatina preventiva a Beirut. La Cina, nel frattempo, stimola. Deficit al 3,8% del Pil rispetto al 3% previsto ed emissioni addizionali di debito per 137 miliardi di dollari solo nel quarto trimestre. Contestualmente, Xi licenzia il ministro delle Finanze. Ma siccome il CSI-300 ha reagito con un rimbalzo da gatto morto, ecco che la Pboc ha reso noto di aver immesso nel sistema 1,96 trilioni di yuan netti (268 miliardi di dollari) in short-term cash negli ultimi tre giorni. Una cifra da stato di crisi. Cui si sono uniti 733 miliardi di yuan in reverse repo venerdì scorso e qualcosa come 5,7 trilioni di yuan di prestiti a 1 anno attualmente in essere, spinte all’insù proprio da operazioni mirate nel mese in corso.
Tradotto? Primo, l’ultimo dato del Pil cinese è palesemente truccato. Secondo, prepariamoci a uno tsunami di deflazione esportata dal Dragone. Il problema, quantomeno tornando alla nostra vecchia Europa? Lo mostra questo altro grafico: rispetto ai competitor e controparti Usa, le nostre aziende sul baratro dello status di zombie (CCC e inferiori) pagano già oggi un premio di rischio che non si toccava dal 2016.
Cosa si fa? Si fa come in Francia. Frozen. Nessuno lo dice, ovviamente. Lo stesso, scaltro Emmanuel Macron ha ritenuto saggio imbarcarsi in un bel tour diplomatico mediorientale. Meglio Hamas dei distributori deserti. E dei camionisti appiedati. Ecco perché la Bce gioisce per il fatto che di tassi si tornerà a parlare solo a metà dicembre. Un arco temporale che, quantomeno, dovrebbe garantire un minimo di chiarezza sull’impatto macro e finanziario della crisi israelo-palestinese. Ma se la Cina continuerà a inondare di stimolo fiscale il sistema, l’Eurotower dovrà fare qualcosa. Salvo farsi trovare palesemente in fuorigioco, quando le componenti inflattive precipiteranno del tutto. E già il 78% del paniere è in netta contrazione. A quel punto, l’economia reale – la stessa delle autostrade francesi – griderà aiuto e invocherà stimolo. Christine Lagarde saprà gestire un simile miss-match potenziale?
Il fatto che nel corso della conferenza stampa abbia definito completamente prematura qualsiasi tipo di riflessione sul timing di un futuro, eventuale taglio dei tassi dimostra due cose: o è terrorizzata o è ignara. Decidete voi quale sia l’ipotesi peggiore, alla luce dei numeri che avete appena letto.
Ma veniamo ora all’Italia, vista ovviamente con le lenti delle politiche monetarie dell’Eurozona. L’immagine del nostro Paese è quella del volto di Giancarlo Giorgetti durante l’informativa al Senato di Giorgia Meloni. Teso. Pallido. Ovviamente, tutti hanno puntato il dito sul dato politico. Ovvero, dopo anni di guerra alla riforma Fornero, la Lega vede il suo ministro varare un intervento ancora più drastico di quello imposto dallo spread. Che all’epoca raggiunse 475 punti base, mentre oggi è spiaggiato in area 200. Perché, allora, tanto rigore? La domanda da porsi, forse, è altra: perché Giancarlo Giorgetti avrebbe dovuto segnare un autogol elettorale simile prima delle Europee? Forse perché il tempo dei palleggi a bordo campo è finito. Lo mostra il grafico.
I nostri 200 punti base sono frutto di una deroga imposta dal Covid al principio di capital key, acquisti pro quota di debito da parte della Bce al fine di evitare distorsioni fra i Paesi membri. Il Pepp, il programma di acquisto pandemico, ha stravolto quel principio base. Un’Europa duale: per qualcuno è Qe, per altri è Qr. Ovvero, espansione o contrazione del bilancio Bce. Cosa ci attende? Ciò che ha spinto il Mef a puntellare l’epicentro chiamato Inps e varare il Fisco con accesso diretto ai conti correnti. E ragionare in maniera differente rispetto alle necessità di finanziamento del nostro debito, da qui in poi.
Se infatti qualche “falco” ha auspicato l’inizio di un roll-off dei bonds acquistati dalla Bce in pandemia, di fatto instaurando un deleverage di quell’implicito reinvestimento titoli che finora ha mantenuto placido il nostro spread, l’opzione più probabile è altra. Quella di un (più o meno ufficiale) richiamo proprio alla fine del regime duale. Non fosse altro come monito all’impossibilità di swap fra titoli in scadenza con altri di più lunga durata, artificio per schermare proprio gli spread dei Paesi con indebitamenti più problematici. Insomma, fine dello scudo Bce. Quasi totale. Non a caso, il nostro spread è sceso sotto quota 200 nel momento in cui Christine Lagarde, rispondendo a una domanda relativa al nostro differenziale sul Bund e al suo grado di tollerabilità per la Bce, Christine Lagarde è ricorsa alla più abusata ma efficace delle formule: Abbiamo tutti gli strumenti necessari per garantire il meccanismo di trasmissione. Un Whatever it takes formale e in sedicesimi che la dice lunga sul livello di tensione latente attorno alla sostenibilità del nostro debito.
E un primo assaggio l’Italia lo ha avuto proprio mercoledì in contemporanea con l’intervento al Senato di Giorgia Meloni. In quei minuti, il Tesoro ha infatti collocato la settima tranche del Btp short term (29/09/2025) con un rendimento lordo al 3,99%, in crescita di 2 punti base rispetto all’asta precedente. Ma nuovo record per questo titolo dal suo lancio nel 2021. Inoltre, è stata collocata la settima tranche del Btp-i (15/05/2029) per 1,5 miliardi con rendimento lordo al 2,24%. Ben 19 punti in più sull’asta precedente. Insomma, Giancarlo Giorgetti sa che domani è già oggi per il nostro debito. E ha agito di conseguenza.
Così come le banche, d’altronde, come al solito capaci di tempi di reazione degni di un centometrista. Questo ultimo grafico mostra infatti l’ulteriore contrazione degli standard creditizi nel terzo trimestre.
“Percezione e tolleranza del rischio”, le ragioni addotte per la stretta. Per ora, meglio tacere sullo tsunami di riscatti che sta colpendo le assicurazioni. Non a caso, piovono le minacce preventive di penali salate. E consigli disinteressati dei media su come sia meglio restare fedeli alla scadenza originaria della polizza. Ma il 2 novembre si avvicina, quando le migliaia di sottoscrittori della fu Eurovita potranno finalmente esercitare l’opzione di uscita anticipate, da otto mesi bloccata dal commissariamento dell’autorità di garanzia. Non so se sia più importante sperare che tutto vada senza intoppi o che l’esodo non inneschi contagio alle altre compagnie. Comunque sia e comunque vada, party is over. Ora restano i bicchieri da lavare.
Lo so, la realtà è dura. Soprattutto quando te l’hanno nascosta fino al giorno prima. Ribaltandola, prima. E dando come al solito la colpa alla Germania, poi.
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