L’attesa che ha accompagnato la fine del board Bce e l’inizio della conferenza stampa di Madame Lagarde è stata febbrile ed entusiasmante quanto quello di chi aspetta il proprio turno dal dentista. D’altronde, il nulla ci si attendeva e il nulla è arrivato. Ecco, se dobbiamo per forza trovare un titolo e una notizia a quanto emerso da Francoforte possiamo azzardare che l’Eurotower abbia finalmente ufficializzato il suo ruolo di mero bancomat da deficit. Non serve ad altro. Perché quando la tua missione statutaria è quella di garantire la stabilità dei prezzi e ancora rinvii il primo, timido rialzo dei tassi – dopo due anni di monetizzazione del debito senza un domani e un’inflazione al 7% – significa solo che ha fallito. E che la tua unica funzione è appunto quella di operare da toppa per i buchi, l’asciugamano che cerca di tamponare le perdite d’acqua in attesa che arrivi l’idraulico a sistemare l’impianto.
E la conferma che la offre questa immagine: l’aver preso di peso una parte del commento relativo al Pepp dello scorso documento finale e averla incollata in quello pubblicato ieri relativamente al transito delle funzioni di facility all’App fino al 30 giugno prossimo dimostra come, alla fine, la Banca centrale europea sia prestatore di ultima istanza. Verso il fallimento, però.
In quelle parole c’è tutto e niente, c’è la speranza per i Paesi indebitati di un cambio di rotta quantomeno nell’ammontare degli acquisti di titoli fino al terzo trimestre, in caso lo scenario bellico peggiorasse e con esso anche le prospettive macro e di liquidità del sistema. Ma c’è anche la conferma per il fronte rigorista di un commitment chiaro verso un’uscita concordata dal periodo di vacche grasse, la quale contempla solo formalmente un’extrema ratio di flessibilità per mera cortesia proprio verso quei Paesi che già oggi scontano rendimenti sui decennali che prospettano un’estate calda. E un autunno potenzialmente bollente.
Perché non si sa se volutamente o per mera casualità, in contemporanea con la conferenza di Christine Lagarde anche Vladimir Putin ha parlato ai mercati, intervenendo a un incontro sul tema energetico trasmesso strategicamente in diretta: «Per l’Europa al momento è impossibile sostituire il gas russo», ha dichiarato in maniera netta il numero uno del Cremlino. Forte di una spaccatura in seno all’Ue sul fronte delle sanzioni su gas e petrolio che conferma la sua tesi e di un surplus per la Russia garantito proprio dall’export energetico senza precedenti.
Piaccia o meno, finora è Mosca ad aver vinto la battaglia economica. Perché se la pista algerina perseguita dall’Italia sconta di partenza una lettera scarlatta di impraticabilità e dilazione dei tempi che la rende pressoché nulla come alternativa, il fatto che la questua energetica del Governo Draghi ora si sia spinta verso l’Egitto conferma platealmente la disperazione di palazzo Chigi. Perché a fronte della contemporaneità dell’appello dei genitori di Giulio Regeni e degli inquirenti romani che istruiscono il processo per la sua uccisione, affinché si ottengano i nomi degli 007 del Cairo responsabili di torture e omicidio, bussare alla porta di Al-Sisi per il gas equivale a uno schiaffo in faccia. Chissà se Mario Draghi avrà il coraggio di andare davanti ai giornalisti e chiedere retoricamente se gli italiani preferiscono giustizia per il ricercatore friulano o il condizionatore acceso? Io ne dubito.
E questi due grafici mostrano come anche l’ultima mossa di Joe Biden si sia rivelata un clamoroso boomerang, sia a livello energetico che politico. A fronte del più grande sblocco di riserve strategiche di sempre annunciato da Washington solo il 31 marzo scorso, ecco che il solo fatto che Mosca abbia annunciato una riduzione della produzione petrolifera più rapida del previsto – circa 1 milione di barili al giorno di controvalore – ha completamente controbilanciato la mossa da record degli Usa, facendo salire le quotazioni di 10 dollari al barile. E, soprattutto, annullando completamente l’effetto di sostegno verso i prezzi alla pompa che il Presidente intendeva ottenere in vista della bella stagione e degli spostamenti per le vacanze. Fallimento totale.
Certo, far notare queste cose in un periodo come quello attuale equivale ad essere bollato come filo-putiniano. Nel mio caso, però, il problema non sussiste. E a differenza di certi contorsionisti, il mio pensiero lo esplicito. E lo rivendico da sempre. E proprio per questo, come noterete, non mi azzardo mai a citare nei miei articoli una sola volta fonti che possano far trapelare dubbi sulla loro obiettività, come Ria Novosti o la Tass o Global Times o China Daily. Il 90% delle informazioni che traggo hanno come fonte Cnbc, Bloomberg e Reuters. A prova di anti-atlantismo, insomma. A fronte di uno scenario simile, cosa volete che possa fare la Bce?
Certo, entro un mese magari arriverà a un compromesso con la Bundesbank e magicamente la data di conclusione degli acquisti in seno all’App passerà dal 30 giugno al 30 settembre e i miliardi resteranno 40 al mese e non 20. Non a caso, già ieri in conferenza stampa Christine Lagarde ha reso noto che, pur rimanendo il terzo trimestre la data da segnare sul calendario come termine degli acquisti, potrebbe configurarsi un breve tempo supplementare che ha definito con la formula some time after. Tradotto, un eventuale supplemento di ossigeno per Italia, Spagna, Grecia e Portogallo si potrà mettere in conto con certezza al board del 21 luglio. Ovvero, passato un mese dalla scadenza naturale e ormai in regime de facto di prosecuzione tacita. Ma sarà soltanto un placebo, un calcetto al barattolo, un prendere tempo rispetto a un redde rationem che questa volta non si potrà scampare: perché per quanto la fantasia sia ormai al potere nel mondo della finanza, gas e petrolio non si possono stampare. Vanno estratti, raffinati e trasportati. E, piaccia o meno, oggi la leva pressoché assoluta non solo della crescita economica dell’Europa ma anche dei destini dei tassi di inflazione è in mano alla Russia.
E se avanzate un attimo di tempo, cominciate a chiedervi come mai la stampa dedichi paginate intere a idiozie come il default delle Ferrovie russe su una cedola in franchi, un qualcosa a cui il mercato non ha dedicato nemmeno uno sbadiglio e invece non abbia il coraggio di ammettere come – purtroppo – in tema di energia il Cremlino abbia ragione. Ovvero, o si scende a patti con Mosca su gas e petrolio o in tempi brevissimi i problemi diventeranno davvero ingestibili. Da crisi strutturale. Da lockdown emergenziale per cercare di tamponare la domanda e i consumi, tanto per capirci e per farvi intendere come non sia il caso di buttare via le mascherine FFP2.
Tutti problemi non risolvibili dalla Bce, la quale può abbassare artificialmente lo spread, ma non il costo del Dutch al megawatt/ora.
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