Entro il mese di ottobre, l’Europa siglerà la sua fine. Nessun tg ve lo ha detto. Nessun giornale. Si sono tutti limitati alle cronache da Dottor Stranamore della nuova deterrenza nucleare voluta da Vladimir Putin e delle conseguenti minacce in caso di attacchi contro Russia o Bielorussia. Poi ha riportato con malcelata soddisfazione del blitz di fine mandato di Joe Biden, il quale al termine del turbinio di incontri più o meno ufficiali a latere del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha annunciato la fornitura di missili a lungo raggio all’Ucraina. Furbescamente, subito è giunta la precisazione: ma non per colpire in territorio russo. E per farci cosa, allora? Rimirarli?



Sempre il Presidente uscente ha poi chiamato a raccolta i 50 Paesi che sostengono Kiev, invitando tutti a un tavolo operativo in autunno che aumenti stanziamenti e spedizioni di armamenti. Nessuno sa se questa sia l’agenda di Kamala Harris. O il colpo di coda di un uomo che fra meno di due mesi si ritirerà a vita da pensionato nel natio Delaware. Nelle cronache, i nostri media si sono però scordati di informarvi sulla conditio sine qua non posta dagli Usa all’Europa, affinché Washington contribuisca con 20 miliardi di dollari al nuovo fondo pro-Kiev, quello deciso sulla carta al G7 di giugno e che dovrebbe in parte finanziarsi con i proventi degli assets russi congelati dall’Europa. Entro ottobre, Bruxelles deve dar vita a una revisione generale dei 17 pacchetti di sanzioni emessi contro Mosca, tramutandoli in un’unica direttiva e imponendo quindi un regime di embargo totale. Ovvero, Washington vincola il suo impegno al fatto che l’Europa ponga fine del tutto all’importazione di gas e petrolio russo. Di fatto, finora ipocritamente esentati. O, comunque, bypassati tramite mezzucci. Gli stessi che hanno visto l’Ungheria, Presidente di turno, non chiudere mai i rapporti con Gazprom. E che, ad esempio, vedono l’Austria dipendere al 70% dalle importazioni di gas proprio da Mosca. Ancora oggi.



Non a caso, in vista del voto di domani, i sondaggi vedono in testa la destra dell’Fpo. Da sempre contraria alle sanzioni. Apertamente, a differenza dei Popolari. Insomma, entro un mese, Bruxelles taglierà del tutto i ponti con la Russia a livello energetico. Almeno, questo chiedono gli Usa. E questo garantirà loro Ursula von der Leyen. Non a caso, imposta per un bis proprio dagli Stati Uniti, nonostante il voto del 9 giugno avesse offerto indicazioni ben diverse.

Alla vigilia dell’inverno, l’Ue con la Germania in crisi industriale epocale e la Francia che lotta con spread e deficit, metterà al bando Gazprom. E Kiev non dirà nulla, nonostante fino a oggi abbia continuato senza tanti scrupoli a incassare tasse e balzelli sul transito del gas di Mosca attraverso il suo territorio e in direzione Europa. Un fondo da 50 miliardi fa passare ogni mal di pancia di bilancio. In compenso, rischia di far precipitare l’Europa in una spirale recessiva e di de-industrializzazione in grado di trasformare la pandemia in un incidente della Storia. Capito il perché di quelle manovre bizantine e anti-democratiche in sede di discussione per la formazione della nuova Commissione? Servivano quinte colonne affidabili. Perché era tutto già preventivato. Tutto deciso. Oltreoceano. E prima del G7 di giugno, di fatto l’atto prodromico di questo suicidio annunciato da colonia pronta a tutto pur di compiacere il padrone. Nemmeno a dirlo, l’Italia era sacerdote officiante.



Per ora, nessuno si preoccupa. Semplicemente perché nessuno fa domande. A che punto è l’accordo con l’Algeria, ad esempio? E il fatto che fra uragani nel Golfo del Messico e mega-scioperi elettorali che gravano sui porti della West Coast, il gas liquefatto Usa possa diventare un miraggio almeno fino a dicembre, davvero non preoccupa nessuno?

Date un’occhiata a questa immagine: è presa dall’edizione on-line del Financial Times di lunedì scorso. Non un solo media italiano ne ha parlato. Tutti troppo impegnati al Palazzo di Vetro.

Peccato, perché al Rockefeller Center, sempre a New York, contemporaneamente alla plenaria Onu si è svolta una bella riunione. Il delegato della Casa Bianca alla transizione energetica e 14 fra le banche più potenti del mondo si sono riuniti e hanno deciso di triplicare gli investimenti nel nucleare entro il 2050, in ossequio apparente (e molto furbo) alle conclusioni della COP28. In realtà, business miliardario per trasportare quella che possiamo definire la good bank dell’AI verso le utilities e lasciare la bad bank dei crediti contabilizzati come collaterale da cloud nei conti titoli dei soliti fessi. Magari cartolarizzate in ESG. Ma, soprattutto, la risposta geopolitica Usa alla Russia e all’Arabia Saudita, a sua volta rea di un avvicinamento a Cina e Brics che Washington vuole farle pagare carissimo.

Addio fossile. Ma addio anche eolico, fotovoltaico e chimere green assortite. Si corre verso il nucleare. Basti vedere le quotazioni dei titoli legati all’uranio nell’ultima settimana di Borsa, tanto per farsi un’idea. E l’Italia, dov’era? Flirtava con Elon Musk. E la sua banca di riferimento giocava al Napoleone del credito, scalando un istituto fallito e risanato. E magari con in pancia potenziali sorprese. In tal senso, chiedere referenze a Ubs rispetto all’eredità Level3 di Credit Suisse.

Tranquilli, manca poco. Entro un mese e mezzo al massimo, scoprirete se il sottoscritto è un disfattista. O la gran parte dei commentatori un po’ troppo compiacenti. O solo miopi.

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