I primi due mesi del 2023 potrebbero rivelarsi fondamentali. Non tanto e non solo nello svelare le strategie delle Banche centrali nel contrasto all’inflazione, ormai vero e proprio motore immobile dei mercati, bensì per capire quanto ci sia di vero nella cosiddetta transizione verde. Insomma, il bluff del secolo potrebbe saltare. Con tutte le ovvie e infinite conseguenze che questo potrebbe portare con sé. Dal 1° gennaio, infatti, negli Usa entra a regime l’Inflation Reduction Act, formalmente un programma designato per aumentare le vendite di auto elettriche e ridurre le emissioni.



Nei fatti, un credito di imposta che – nelle condizioni di criterio migliore – può arrivare fino a 7.500 dollari per richiedente. Ma proprio la scansione temporale scelta dal Treasury statunitense rivela il profilo da stress test dell’operazione: l’intero ammontare sarà disponibile appunto solo in gennaio a febbraio, mentre a partire da marzo scenderà e verranno applicati vincoli e paletti maggiori. Sempre nei primi due mesi del 2023, poi, è previsto anche un contributo di esenzione minore per chi acquista un’auto elettrica usata. Da marzo, questo credito d’imposta sparirà del tutto.



Perché questa mossa del Governo degli Stati Uniti dovrebbe essere tanto dirimente? Una risposta ci arriva indirettamente da questo: dopo il -18% della settimana pre-natalizia, peggior risultato sui cinque giorni di contrattazioni dal marzo 2020, il market cap di Tesla è sceso dai 1.200 miliardi di inizio anno a meno di 400 miliardi. Di fatto, il controvalore di capitalizzazione bruciato in un anno dalla creatura di Elon Musk e simbolo riconosciuto della svolta green dell’automotive è stato maggiore dell’attuale market cap combinato dell’intero comparto a livello globale. Eppure, nessuno sembra averne preso atto.



Tesla per mesi e mesi è stata l’architrave stesso del Nasdaq e di fondi come ARK di Cathie Wood, il quale deteneva titoli dell’auto elettrica in quantità industriale. Ma ecco che il capitalismo da social network ha regalato al mercato un saggio della sua capacità di dissimulazione. Utilizzando l’alibi dell’acquisizione di Twitter, Elon Musk ha scaricato miliardi e miliardi di azioni della sua creatura. Quasi senza che nessuno se ne preoccupasse. Anzi, nessuno se ne preoccupava. Se non i poveretti che si ritrovavano con un titolo in caduta libera permanente in portfolio, pagato spesso cifre astronomiche. Nel mondo della comunicazione social, l’importante però era il livello di democrazia che Elon Musk pretendeva di garantire a Twitter: Tesla era soltanto un orpello fra un viaggio spaziale, un esperimento di microchip e una disputa con Kiev su Starlink. E il nostro eroe, conscio della stupidità che governa il mondo moderno, ne ha addirittura abusato.

Dopo aver scaricato titoli della sua patata bollente, ecco che ha cominciato un’elaborata pantomima, garantendo a ogni giorno la sua pena social, in modo da tenere utenti e media impegnati. Prima gli stop-and-go sull’acquisizione, di fatto pratica che normalmente avrebbe interessato la SEC per aggiotaggio e turbativa dei mercati. In questo caso, tutto a posto. Poi le purghe di stampo staliniano tra i dipendenti, salvo doverli riassumere con un tweet perché l’intera operatività del social appariva a rischio. Poi è stato il turno della riammissione del profilo di Donald Trump, la sospensione di alcuni account di giornalisti, la disputa sulla spunta blu di certificazione a pagamento e, infine, il coup de theatre del sondaggio sulla sua permanenza come Ceo dell’azienda. Di fatto, in attesa di trovare un sostituto, Elon Musk ha preso per i fondelli il mondo per un paio di mesi. Mentre il titolo Tesla sprofondava.

E quel calo deve far pensare. Perché al netto delle auto consegnate e degli sconti praticati, il gigante dell’auto elettrica rischia di essere il canarino nella miniera di un bluff più grande: quello cosiddetto ESG applicato all’automotive, un qualcosa che ha visto l’Unione europea inferire un colpo mortale al comparto con le sue draconiane deadlines per i veicoli tradizionali e la transizione forzata all’elettrico, appunto. E mentre i conti delle aziende sanguinano e le vendite restano aggrappate a continui programmi di incentivazione e sconto strutturale, ecco che ora l’America sembra pronta a lanciare il segnale di indietro tutta.

Se infatti fra gennaio e febbraio nemmeno 7.500 dollari di incentivo all’acquisto saranno sufficienti a far digerire agli americani l’alternativa alla pompa di benzina, ecco che il mercato prezzerà altro: la festa garantita da Greta Thunberg è finita. In primis, l’intero carrozzone delle certificazioni verdi per i bonds. Insomma, il rischio è quello di un mercato che si faccia travolgere da un’ondata di greenwashing senza precedenti. E in tal senso, attenzione al voltafaccia a tempo di record di cui si è reso protagonista la scorsa settimana il Ceo di Toyota, il quale è passato da fustigatore della tiepidezza elettrica dei colleghi di fine settembre al ruolo di delatore dei dubbi dell’intero comparto sulla sostenibilità dell’approccio unicamente green all’automotive del futuro. Insomma, un clamoroso caso di mani in avanti. Legato unicamente a una logica produttiva che si sposa a impostazioni politiche ormai spremute come limoni, fra bonanza ESG e Green New Deal dall’indebitamento allegro? Non solo. Il tempismo, come sapete, è tutto. E il fatto che sia esplosa proprio ora la vicenda del atargate, fa pensare. Perché se Qatar e Marocco possono aver esercitato pressioni indebite e illecite per tutelare i propri interessi in ambito Ue, quante potrebbe averne poste in essere la lobby dell’auto elettrica – e, più in generale, green – per ottenere un cambio di politica industriale così drastico a proprio favore?

Che si stia avvicinando il redde rationem per certe scelte di sostenibilità ambientale che invece sottendevano finalità meno nobili e più prosaiche? D’altronde, colpire il Qatar rappresenta la nemesi perfetta: se la missione era coprire qualche spintarella di troppo per il green, mettere nel mirino un produttore fossile del Golfo appare geniale. Forse troppo, però.

Attenzione ai primi due mesi del 2023. Perché se l’America ha imposto al mondo la pantomima elettrica, sventolando la bandiera di Tesla come si fa con i reparti d’élite sul campo di battaglia, ecco che ora potrebbe battere per prima in ritirata. Lasciando altri in prima linea a farsi massacrare dal mercato. Indovinate chi?

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