L’inflazione americana a gennaio è stata più alta delle attese, 6,4% contro 6,2%; alimentari e energia sono saliti del 10,1% e dell’8,7% e le spese per l’abitazione, il maggiore contributore dell’inflazione “core” (senza alimentari e energia), del 7,9%. Ci si aspettava che una delusione di questo tipo, rispetto alle attese di disinflazione, portasse a un calo degli indici azionari più alto rispetto a quello visto a fine giornata. Lo scenario di disinflazione si porta dietro la fine o l’inversione delle politiche restrittive delle banche centrali. A controbilanciare la riduzione è stato il miglior dato sugli incrementi dei salari dalla fine del 2021. I salari reali continuano a scendere, ma l’incremento delle buste paga attutisce l’impatto della crescita dei prezzi e consegna uno scenario in cui i consumi in qualche modo tengono. In questo quadro la recessione esce dall’orizzonte di breve termine.
L’inflazione è stata, nella narrazione ufficiale, un fenomeno transitorio per tutto l’autunno del 2021; poi è diventata una pausa in un quadro di normalizzazione che si sarebbe presentato tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 complici le politiche restrittive delle principali banche centrali occidentali. Oggi questa narrazione sembra venire meno e si approderà a una nuova realtà in cui l’inflazione rimane alta per un lungo lasso di tempo. L’incremento dei prezzi del 6,4% di gennaio 2023 si aggiunge al 7% di gennaio 2022, ma la maggior parte delle persone non ha ancora avuto un incremento dei salari del 14%. Questo nonostante il mercato del lavoro, anche in Italia, rimanga tirato in parte come conseguenza delle uscite dal mercato eccezionali del 2020.
La nuova normalità, un’inflazione strutturalmente più alta del 2% per lungo tempo, è una sfida per le banche centrali e per la “politica”. Settimana scorsa, Silvana Tenreyro, un membro esterno del comitato di politica monetaria della Bank of England, in un’audizione davanti al Parlamento inglese ha dichiarato che “per raggiungere il target del 2% di inflazione nel 2022 avremmo avuto bisogno di una deflazione nei servizi del 15%”; “questo livello richiederebbe una massiccia recessione con una disoccupazione in doppia cifra”. Il sospetto è che dato il quadro geopolitico, guerre commerciali e meno incluse, questa affermazione valga anche per il presente e anche per l’immediato futuro. In questo caso le banche centrali dovranno alla fine scegliere tra una “recessione massiccia” o un tasso di inflazione strutturalmente più alto del 2%.
In entrambi i casi i sistemi politici e sociali più attrezzati per resistere sono quelli che riescono a difendere e aumentare la produzione industriale e a difendere le proprie catene di fornitura in particolare quelle energetiche. In questo caso sale l’inflazione, ma salgono anche i salari e si può sperare dopo una lunga fase, pluriennale, di arrivare alla normalizzazione. Diversamente la pressione sociale diventa un problema serio per la politica. Un mondo frammentato, come quello che si sta presentando in modo più evidente giorno dopo giorno, è un mondo in cui le performance economiche tra regione e regione si possono divaricare profondamente. Questo significa che un particolare Stato o insieme di Stati può trovarsi in una situazione di crescita economica debole o assente e, contemporaneamente, di inflazione alta perché gli altri sistemi continuano a comprare materie prime.
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