«Non è pensabile mettere ulteriori restrizioni in questa fase, l’Italia non può permettersi un nuovo lockdown, serve la responsabilità di tutti. Serve agire in modo veloce e sicuro sulle riaperture, l’unico sostegno vero è tornare a lavorare. Il resto sono chiacchiere». Parole e musica del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, nel corso del question time al Senato di giovedì. Non del maggio scorso. In questa frase, c’è racchiuso il tempo che viviamo. E la sua irresponsabilità. Non personale del ministro, ci mancherebbe. Di un’intera classe politica.



E di un Paese che non fa nulla per esserle migliore e imporle di migliorare. Basta guardare come si comporta la gente, da quando l’Italia è entrata in zona bianca totale. Il Covid pare non sia mai esistito. E comincia, sempre più frequente, anche l’insofferenza diffusa verso quel minimo sindacale di regole rimaste: vedi la mascherina nei negozi e sui mezzi pubblici. Basta fare un giro per Milano, a qualsiasi ora. Di qualsiasi giorno. La notte, poi, lasciamo perdere.



E non mi interessa sapere se davvero pagheremo la variante Azzurra, intesa come picco dei contagi per gli assembramenti durante gli Europei. Non fosse stato per quello, si sarebbe trovato un altro modo per sfogare l’irresponsabilità con la scusa della voglia di vivere per troppo tempo repressa. I telegiornali sono pieni, in questi giorni, di notizie relative a giovani italiani in vacanza all’estero, bloccati perché positivi. La Farnesina, quasi il ministero degli Esteri non avesse cose più importante di cui occuparsi, si sta interessando. Mi chiedo: in una situazione globale come quella che stiamo vivendo, ovvero di fragile uscita dalla pandemia con Paesi tutti palesemente in ordine sparso, era proprio necessario andare all’estero? Si chiama buon senso. E se i ragazzi possono essere perdonati, poiché tali e quindi vittime dell’esuberanza della loro età, i genitori che quei viaggi li pagano, no.



Cosa c’entra tutto questo con l’appello del ministro Garavaglia al Senato? Semplice, i cittadini rispecchiano lo Stato in cui vivono. Come i cani riflettono nel loro carattere quello del padrone. E noi viviamo in un Paese che, forse non ci è ancora sufficientemente chiaro, se dovesse chiudere davvero da qui all’autunno, si troverebbe la Troika a Roma il giorno dopo. Draghi o non Draghi. Insostenibilità strutturale dei conti, già ora. Prezzatura di tapering immediata, altro che uscita graduale. Esattamente come la Grecia, la cui bomba a orologeria degli Npl sta ticchettando talmente forte da tenere sveglio l’intero Parlamento di Atene, già insonne per il continuo aumento dei contagi da minimizzare di fronte ai turisti.

Il ministro Garavaglia ha certificato la realtà, la stessa che la Bce ha nascosto finora: nonostante 209 miliardi di Recovery Fund e circa 40 di fondi Sure, questi ultimi già ricevuti, l’Italia se perde due mesi di stagione turistica è morta. Perché qui non si parla di lockdown totale, signori. L’Olanda ha già re-imposto tutte le regole di questa primavera, in fretta e furia. Ma l’industria funziona. Si è tornati in smart working obbligatorio per i servizi ma le fabbriche, i depositi, gli hub sono operativi. Ovviamente con mascherina, distanziamento, gel e prudenza. Direte voi, l’Olanda non vive di turismo. Verissimo. E forse, sarebbe il caso di ragionare un po’ su questo punto.

Certamente quella voce pesa molto sul Pil italiano, circa il 13%. E nessun Paese al mondo può fare a meno di oltre un decimo del suo prodotto interno lordo senza patire le pene dell’inferno. Ma attenzione a come si leggono le statistiche. Quel numero è il frutto di contributo indiretto e indotto, poiché il turismo in sé pesa per il 5,5% del Pil e il 6,5% del tasso di occupazione generale. Lo dicono le ultime statistiche pre-Covid (2018) della Banca d’Italia. Noi, invece, da anni ormai abbiamo sposato la storiella auto-assolutoria del turismo come petrolio dell’Italia. Balle. E non perché quel comparto non sia importante, bensì perché non è esiziale come viene dipinto. Non fosse altro per il suo enorme limite di non strutturalità.

Mi spiego meglio e lo faccio con questi tre grafici, freschi freschi di uno studio congiunto di Oxford Economics e Haver Analytics, non esattamente istituzioni tacciabili di idiosincrasia ideologica verso la libera impresa e il mercato.

Ci mostrano come il comparto turistico e dell’hospitality espresso attraverso il proxy di bar e ristoranti nell’eurozona abbia immediatamente prezzato la non transitorietà dell’inflazione e incorporato ai massimi il trasferimento di costi lungo la catena. Tradotto, aumentato enormemente i prezzi dei servizi che offre al pubblico. Quasi anticipando le dinamiche, poiché alla luce del terzo grafico, il tutto è avvenuto a fronte di un trend generale dell’inflazione che in giugno non è esploso. Quindi, due dati di fatto: le Banche centrali raccontano balle sull’ebollizione dei prezzi, poiché l’alternativa sarebbe quella di dover ammettere che il Qe genera inflazione nefasta e con il rischio di stagflazione. Secondo, una reazione simile all’indice CPI, sia nella tracciatura in tempo reale che in quella proiettata a 3 mesi, parla chiaramente di un’insostenibilità di fondo. Ovvero, il turismo va benissimo come boost, come plus per un’economia avanzata. Non può esserne però il motore, stante la dipendenza totale da fattori esogeni e congiunturali. Oltre che di atteggiamenti di massimizzazione predatoria del profitto, inutile negarlo.

In tal senso, Pier Luigi Bersani fu crocifisso quando osò avanzare qualche sospetto sulla bontà dei sostegni a pioggia invocati dal centrodestra: questi grafici sembrano offrire giustizia ai suoi dubbi. E, forse, qualche spiegazione accessoria e inconfessabile alla sparizione improvvisa dei ristoratori ridotti alla fame dai talk-show televisivi. Siamo l’Italia. Non siamo la Grecia, né la Spagna. E dovremmo quindi cercare di essere un po’ più la Francia. Ovvero, una nazione che certamente non disdegna i milioni di stranieri che ogni anno visitano Parigi o che approfittano delle bellezze della Costa Azzurra o della Provenza, ma che è conscia del fatto che una nazione seria, solida e moderna del mondo sviluppato ha ancora e comunque l’industria come caposaldo e ossatura. Declinata in comparti 2.0, certo e non più solo nella metallurgia pesante o nella meccanica industriale di precisione. Ma certamente non ombrelloni, discoteche e dehors.

Ce ne accorgiamo sempre troppo tardi di questa discrepanza, generalmente quando i soliti nazionalisti da discount gridano contro i barbari alle porte e contro lo shopping estero dei nostri gioielli industriali, del lusso o alimentari. Ci siamo mai chiesti come mai quello shopping è sempre a buon mercato e, soprattutto, sempre possibile? Ieri vi ho parlato dell’investimento da 1 miliardo di euro della Bosch per costruire un hub dedicato alla produzione di micro-chip a Dresda: annunciato a maggio di quest’anno, sarà operativo da settembre. In piena pandemia, quantomeno la decisione dell’investimento. E la fase operativa per partire a tempo di record. La Germania ha fatto un lockdown duro, vero e più lungo del nostro. Eppure, ha investito in un’infrastruttura industriale che le garantisce una vera e propria porta sul futuro. Non puntiamo a un soppalco sul passato degli anni Sessanta, delle serrate agostane delle fabbriche, della fughe in colonna sull’Autostrada del Sole. Mi spiace, qui occorre decidere se vogliamo essere la Grecia – con tutto il rispetto – o meritarci il posto che occupiamo nel G7.

Il Covid ha completamente ribaltato le dinamiche commerciali della globalizzazione, rimesso in discussione in un anno un processo a livello mondiale durato un ventennio: sicuri che possiamo ancora permetterci di vivere in un film di Fellini? Se sì, benissimo. Però rendiamoci conto che saremo sempre gli ultimi dei primi. E questo Paese le potenzialità industriali per mettere tutti in riga le ha eccome, basti guardare a un altro passato, nemmeno troppo lontano ma decisamente più edificante. Eni, Olivetti, le auto, la chimica. E potrei andare avanti e avanti. Certo, occorre prendere il sistema e ribaltarlo, se si vuole competere in un mondo dove ora l’avversario è sudcoreano e il potenziale cliente sta in Russia.

Signori, occorre smettere in primis di vivere sopra le nostre possibilità, fingendo che la colpa sia sempre dei tedeschi cattivi e austeri o dell’euro che distrugge la nostra competitività: abbiamo un debito pubblico da Terzo Mondo e abbiamo gettato criminalmente nel gabinetto due anni e mezzo pre-Covid ad ascoltare gente che sosteneva come il debito pubblico fosse in realtà la ricchezza di un Paese, che voleva emissioni continue di Btp, che chiedeva una Bce in versione bancomat, utilizzando però la formula molto chic del prestatore di ultima istanza. Signori, ora è davvero game over. E ce lo ha detto il ministro Garavaglia: l’Italia non può permettersi di chiudere. Nemmeno, probabilmente, se oltre ai contagi già in netta risalita risaliranno anche le ospedalizzazioni. Altrimenti, libri in tribunale.

Che non significa ristrutturazione all’Argentina ma commissariamento tout court, quasi certamente con Mario Draghi confermato a palazzo Chigi nel ruolo di garante verso Bruxelles e Francoforte. O forse il piano, fin dall’inizio, è proprio questo? Rifletteteci, perché il ghiaccio sotto i piedi ora scricchiola davvero.

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