Nel mio ultimo articolo parlavo della tregua che l’Europa garantirà al Governo Meloni da qui alla prossima primavera, quando le elezioni regionali in Lombardia e Lazio dovranno garantire un riequilibrio dell’esecutivo in senso maggiormente europeista. La reazione fra lo scomposto e l’irritato di Forza Italia e Lega all’incontro fra la presidente del Consiglio e Carlo Calenda parla chiaro al riguardo, offrendo più di una conferma. Ma ecco che la situazione pare evolversi in maniera molto rapida, ancorché sottotraccia. Le truppe del cosiddetto Terzo Polo, infatti, mercoledì hanno unito le forze con quelle della maggioranza e hanno affossato la legge sul salario minimo. Un atto che va ben oltre le forme e i numeri parlamentari. Una scelta politica, di campo. Ma ecco che palazzo Chigi pare aver deciso di sparigliare le carte, aprendo una partita che è decisamente interessante. E il cui sviluppo ci dirà realmente quale sia l’aria che tira in Europa rispetto al nostro Paese.



Sempre mercoledì la Camera ha approvato a maggioranza la mozione unitaria del centrodestra che impegna il Governo a non approvare il disegno di legge di ratifica del Mes alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo. Una supercazzola burocratese che ha un unico significato: come vi dico da mesi e mesi, entro fine anno andava ratificata la riforma del Mes e il Governo Draghi aveva calciato il barattolo del redde rationem parlamentare per evitare che la sua maggioranza andasse in pezzi. Giorgia Meloni ha fatto lo stesso, utilizzando però un artificio che potrebbe apparire quasi un omen, un lapsus freudiano applicato alla politica. Quella formula bizantina fa infatti riferimento all’unico altro caso in Europa di ratifica non ancora avvenuta, ovvero quel Bundestag tedesco che attende il pronunciamento della Corte costituzionale di Karlsruhe prima di votare. Insomma, apparentemente Roma rimanda al mittente la pratica perché dalla Germania non è arrivato il via libera. Molto furbo. Ma anche pericolosamente simbolico. Perché qui l’azzardo è forte. E potrebbe in tal senso svelare quanto davvero l’Europa è disposta a essere paziente con l’Esecutivo italiano. Perché la ratifica del Mes modificato è conditio sine qua non per poter accedere al TPI, lo scudo anti-spread. Il quale, come è noto, attualmente non è alle viste per nessuno degli Stati cosiddetti periferici, per il semplice fatto che il reinvestimento titoli della Banca centrale sta funzionando egregiamente come compressore artificiale dei premi di rischio da rialzo dei tassi.



Bruxelles ritiene un depotenziamento della componente leghista priorità così superiore da rendere accettabile questa falsa alzata di sovranismo a fine di consenso interno? Probabilmente, sì. Anche perché l’Europa ci ha insegnato che le scadenze possono essere prolungate e differite, se necessario. Basti vedere la questione Mps-Tesoro e le sue tempistiche di disimpegno statale. Ora, poi, la partita di trasferisce in sede Bce. E con un’accoppiata di quelle da pelle d’oca, poiché il board della Banca centrale europea inizierà il 14 dicembre, giorno della fine del Fomc della Fed e della conferenza stampa di Jerome Powell. Il quale, intervenendo mercoledì in sede di presentazione del Beige book, ha detto chiaramente che il rialzo dei tassi potrebbe conoscere un rallentamento, se non una pausa già nel board del mese appena iniziato. E la Bce cosa farà, al netto di una stima preliminare dell’inflazione nell’eurozona che per novembre ha segnato un calo al 10% dal 10,6% di ottobre e contro le attese del 10,4% degli analisti?



Come vi dicevo l’altro giorno, Christine Lagarde è stata decisamente netta al riguardo: i tassi continueranno a salire. E, addirittura, ha reso noto come sul tavolo del Consiglio del 14-15 dicembre troverà posto anche la discussione preliminare sul Qy, ovvero la vendita graduale degli assets acquistati nel corso dei programmi di Qe. Il dimagrimento di bilancio. Il quale, fino a quando sarà controbilanciato dal reinvestimento titoli, non fa paura. Ma, come notate, le variabili cominciano a essere molte. Troppe.

Davvero all’Italia sarà concesso di usufruire di deroghe e dilazioni senza richiedere alcuna garanzia? Addirittura permettendosi il lusso di archiviare la ratifica del Mes? E se il famoso patto non scritto che dovrebbe garantire la tregua, si rivelasse una trappola? Se, di colpo, tornasse in auge il tetto alle detenzioni di debito domestico per banche e assicurazioni? E se la discussione sul Qt prendesse talmente piede da far prezzare al mercato una fine del reinvestimento titoli, quantomeno su questi controvalori, prima dell’annunciato termine del 2023? Insomma, se si innescasse una crisi da spread che vedesse l’Italia mostrare al mercato la lettera scarlatta della sua paradossale alzata di sovranismo nei confronti della ratifica del Mes? Se ci ritrovassimo senza possibilità di attivare per via ordinaria degli strumenti straordinari di emergenza, cosa accadrebbe?

La scommessa è questa. Ed è di quelle che non lasciano margini di appello. O si vince o si perde. Quanto dovrà cedere all’Europa il Governo Meloni nella sua versione post-regionali per potersi dire al riparo da eventuali colpi di coda o effetti collaterali?

Attenzione, nel breve termine, a due dinamiche. La prima è quella rappresentata da questo grafico, il quale mostra gli andamenti comparati dello Standard&Poor’s 500 da inizio anno e nel biennio 2008-2009, quello del crollo Lehman e della conseguente crisi finanziaria.

Come notate, totalmente sovrapponibili. E ora siamo al bivio: se per caso, fra due settimane, la Fed tradisse tutte le speranze del mercato per un rallentamento o una pausa dei rialzi, tornando a intervenire sul costo del denaro in maniera drastica, pensate che non avremmo una drammatica prosecuzione di quel recouple dei corsi azionari? E come reagirebbe l’Italia a uno shock simile sul mercato?

Seconda dinamica, questa: nonostante il dato positivo sull’inflazione nell’eurozona, apparentemente giunta al picco, l’indice European Industrial Confidence della Commissione Ue viaggia oggi ai minimi dal gennaio 2021 e attorno a un eloquente livello di -2.0.

Significa che l’economia reale vede di fronte a sé uno scenario ancora fosco per i mesi a venire, come d’altronde testimoniato da più di una voce degli indici CPI. I quali appaiono migliorati unicamente per un calo delle pressioni energetiche grazie a un autunno quasi in versione estiva a livello di temperature. Ma l’inverno è solo iniziato. E come avrete potuto notare, le variabili sul tavolo sono molte. Come gli imprevisti del Monopoli.

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