«Le Banche centrali si trovano in una situazione difficile. Devono alzare i tassi per evitare che l’inflazione aumenti ulteriormente, ma non possono farlo troppo in fretta, rischiando di spedire le economie in recessione». Così parlò Mario Draghi nella conferenza stampa seguita all’incontro con Joe Biden, prima di rientrare in Italia. Tutto vero. O, almeno, quasi tutto vero. Perché nonostante l’abbrivio di onestà scelto per la sua disamina, il presidente del Consiglio non ha voluto derogare all’approccio da ottimismo della volontà che nel nostro Paese sembra una conditio sine qua non per governare. E ha mentito, ritenendo prioritaria la prosecuzione della pantomima, al fine di mantenere incollati in qualche modo i cocci della sua maggioranza. La quale, a differenza dei vasi giapponesi, non è però né più bella, né più efficace nell’azione grazie a quelle crepe visibili. È semplicemente sull’orlo di una crisi di nervi. Che l’approssimarsi delle amministrative farà detonare. 



Il problema è che quello odierno è il momento del pessimismo della ragione, volendo sempre ricorrere alle categorie gramsciane. Perché dire come ha fatto Mario Draghi che l’Italia non andrà in recessione quest’anno appare una palese bugia. Con le gambe cortissime. Perché in perfetta contemporanea con l’asserzione dell’ex numero uno della Bce da Washington, a Berlino il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, scoperchiava l’ennesimo vaso di Pandora, ammettendo come l’economia tedesca sia ormai indirizzata verso la stagflazione. Anzi, precisione vuole che si riportino letteralmente le parole del segretario dei Liberali: «In Germania forse è già iniziata una fase di stagflazione». 



E questo grafico mostra plasticamente come siano i dati macro a smentire l’inquilino di palazzo Chigi: la correlazione fra Pil e tasso di inflazione globali è impietosa già ora e parla chiaramente di una stagflazione assicurata. A livello mondiale. Salvo miracoli. Ma non quelli riconducibili ai giochi di prestigio monetari delle Banche centrali, proprio quelli divini. 

E non basta. Perché questa tabella è ancora più drastica: mette in correlazione le proiezioni di varie istituzioni relative al Pil globale e per area continentale del mondo nel 2022. Fra queste spiccano il Fmi e Bloomberg con il suo survey annuale compilato da un panel fra i più accreditati economisti del mondo. 



Ciò che conta, però, è la colonna centrale con i numeri in rosso: quelle sono le cifre appena rese note dall’IIF, Institute of International Finance. Ovvero, la Banca centrale delle Banche centrali. Il mondo è già praticamente in recessione. Nella sua interezza. E il dato dell’eurozona ci dice chiaramente come Mario Draghi abbia mentito sapendo di mentire, quando ha escluso contrazioni dell’economia per il 2022. Certo, il fardello del 6,6% di Pil che ha garantito al suo Governo il premio dell’Economist è pesante da portare, mentre il mondo annega nell’inflazione e la guerra comprime tutte le dinamiche. Con l’aggravante di una crisi cinese sulla supply chain che sembra sul punto di esplodere del tutto. Ma occorre essere chiari: il nostro Paese deve accedere, subito, a qualche forma di assistenza. E non fatevi irretire dallo spread e dai suoi avanti e indietro, gli stop-and-go tipici di una fase di studio. Il problema è strutturale. Non ci sono soldi da mettere in campo per sostenere l’economia, quando la Germania che ha appena ammesso la stagflazione ha già messo a bilancio e stanziato 100 miliardi in garanzie per le imprese. Qui abbiamo fatto i salti mortali con i resti del Def e li si è rinforzati con l’intervento sull’extra-gettito dei colossi energetici: praticamente, un terminale e disperato raschiamento del barile, un’una tantum da fine impero. Il tutto mentre ancora ci si barcamena, visto che la crisi energetica morde ma non è ancora entrata nella fase più critica: se davvero diremo addio al gas russo, dove finiranno le nostre imprese? 

Perché Joe Biden è stato chiaro e Mario Draghi ha dovuto ammetterlo: gli Usa sono disposti a discutere di un tetto al prezzo del petrolio, ma non del gas. E a noi serve LNG come se piovesse, stante la scelta suicida di voler chiudere i conti con Gazprom e l’insipienza ex ante dell’alternativa africana. Cosa metteremo in campo a schermatura di economia reale e costi di finanziamento del debito, una volta che la fase prodromica della stagflazione già presente in Germania si espanderà a tutta l’eurozona, come appare scontato?

Chiamatelo Mes, chiamatelo Recovery bellico, chiamatelo come volete: Roma sta per chiedere aiuto formale alle istituzioni internazionali. Nella fattispecie, Bce e Commissione. Sperando di evitare la trappola del coinvolgimento del Fmi. Sono i numeri a dirlo, spietati. E per quanto si possa essere dotati di fede, questa volta le possibilità che un miracolo si palesi a salvarci sull’orlo del baratro sono davvero poche. Residuali. Praticamente, nulle. 

Forse Mario Draghi è stato messo a palazzo Chigi per questo, per gestire un processo di transizione delicatissimo che nelle segrete stanze era noto ormai da tempo, quantomeno dalla fase iniziale dell’emergenza pandemica? Con il passare dei giorni e il sempre più spudorato atteggiamento di indifferenza verso il Parlamento e le sue prerogative, il sospetto diviene quasi certezza. Perché solo un’emergenza non più rimandabile può spiegare la deriva personalistica di palazzo Chigi nella gestione della cosa pubblica delle ultime settimane, quasi un allontanamento coatto degli elementi di disturbo e ritardo. Una messa in quarantena di un lusso che il nostro Paese non si può più permettere. Meglio prenderne atto, perché quei numeri non mentono e si prospettano come una sentenza. Se la Germania è già in stagflazione, l’Italia è commissariata. De facto. 

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