L’evocazione da parte di Giorgia Meloni della strategia della tensione in relazione ai fatti accaduti a Roma sabato scorso, in primis l’assalto alla sede della Cgil, ha generato grande indignazione. Alla base delle reazioni, il fatto che gli anni Settanta e il terrore che li contraddistinse con il loro stragismo furono appannaggio dell’estrema destra eversiva saldata a spezzoni deviati dello Stato. Quindi, chi arriva – seppur dopo un viaggio lunghissimo e tortuoso – dalla storia dell’MSI, dovrebbe astenersi dall’evocare quella stagione. Invece, Giorgia Meloni aveva non una ma mille ragioni per farlo. Perché al netto dei protagonisti e delle responsabilità, ciò che interessa era la finalità di quel periodo storico: ingenerare nell’opinione pubblica un tale livello di paura e incertezza da spingerla nella migliore delle ipotesi a chiedere un rafforzamento dello status quo, messo in discussione dal Sessantotto e nella peggiore, addirittura ad accettare la cosiddetta svolta autoritaria. Tradotto, un golpe militare e la proclamazione dello stato di emergenza.
Al netto dei militari, i quali stanno gestendo a livello di vertice la campagna vaccinale e che sabato presidieranno le strade della Capitale per mantenere l’ordine nel corso della manifestazione indetta dalla Cgil, siamo o meno in uno stato di emergenza? Fino al 31 dicembre, sì. Ufficialmente. E siamo l’unico Stato europeo ancora in queste condizioni. Attenzione a non cadere in facili fraintendimenti, però. Quell’alterazione delle normali dinamiche democratiche non nasce come risposte a una prospettiva eversiva, bensì sanitaria. Per contrastare più efficacemente una pandemia che ha già reclamato 130.000 morti, occorreva accorciare la catena di comando, snellire tempi e procedure e bypassare certe lungaggini procedurali,ad esempio sugli appalti. Sacrosanto. Quanto accaduto sabato a Roma e quanto minaccia di poter accadere oggi, giorno di entrata in vigore ufficiale del green pass per i lavoratori, cambia però tutto: questo Paese sta vivendo una doppia emergenza. E tutto fa pensare che le prossime settimane possano vedere il quadro drammatizzarsi ulteriormente: i dati macro che giungono dalla Germania sono da mani nei capelli, tanto i principali cinque istituti economici del Paese hanno tagliato le stime del Pil per l’anno in corso dal 3,7% al 2,3%. La ragione? I colli di bottiglia sulla catena di fornitura della logistica, fra aumento delle materie prime, scarsità di microchip e costi alle stelle per il trasporto. Cosa accadrebbe, se davvero la minaccia dei portuali di Trieste, Genova e Gioia Tauro si tramutasse in realtà? E se li seguissero i camionisti? E se dopo di loro si accodassero i lavoratori dei trasporti pubblici e magari quelli che consegnano al Paese le merci dell’e-commerce? Dove andrebbe il 6% di Pil sbandierato dal Governo?
Ecco, la strategia della tensione 2.0 non ha bisogno – grazie a Dio – di bombe nelle piazze o sui vagoni dei treni. Basta l’economia. Nei casi peggiori, la finanza. Perché a vostro modo di vedere, la Fed – nell’unico momento storico degli ultimi 18 mesi in cui era accettabile un atteggiamento attendista – sta mettendo il carico da novanta sul taper, di fatto confermato per metà novembre o al massimo metà dicembre dalle minute pubblicate mercoledì sera? Perché questa svolta da falco, dopo mesi e mesi di negazione del problema inflattivo, definito transitorio in tutte le salse?
Una risposta arriva paradossalmente dall’altra parte del mondo e da questo grafico: l’indice dei prezzi alla produzione in Cina è salito al massimo da 26 anni a settembre, mentre quello dei prezzi al consumo è rimasto pressoché inalterato. Detto fatto, il gap fra i due proxies inflattivi del Dragone si è ulteriormente ampliato, esattamente come accadde all’inizio degli anni Novanta.
Ora c’è un problema: già 13 aziende quotate sull’A-shares market cinese hanno comunicato l’intenzione di aumentare i prezzi entro fine anno, stante la necessità di operare un off-setting proprio sulla crescita dei costi alla produzione e sulla conseguente riduzione dei margini. Ma attenzione, perché contemporaneamente la Cina sta affrontando la deflagrazione controllata del mercato immobiliare, fra default selettivi e mancati pagamenti di coupon obbligazionari. Ecco il grande snodo, destinato a trovare uno sbocco entro fine anno. Pechino, infatti, è apparentemente in trappola. Se decide di salvare ciò che resta di sano del real estate – settore che pesa per il 26% del Pil – sarà costretta a dar vita a una manovra espansiva a livello monetario (Qe tout court) che spedirà ulteriormente in orbita un’inflazione già da record. Tradotto, ulteriore contrazione dei margini di produzione, aumento dei prezzi al dettaglio con conseguente calo (o crollo) dei consumi e il fantasma di una recessione da stagflazione che già bussa alla porta. Se invece deciderà di seguire la linea schumpeteriana fin qui adottata da Xi Jinping, il mercato immobiliare già in fase di implosione, semplicemente rischierà di crollare del tutto. Nemmeno a dirlo, a quel punto gli spillovers non si limiteranno come in queste settimane al mercato obbligazionario ma contageranno giocoforza quello azionario. Di suo, già in netta correzione a causa della stretta regolatoria sui settori chiave imposta dal Partito. Di quale male morire, insomma?
Ecco, il mondo dipende da questa scelta. E per questo, nel frattempo gioca di rimessa. E si prepara. A cosa? A un periodo di instabilità globale che rischia di essere decisamente più serio, pesante e profondo di quello del 2008. E gli echi di quell’anno si fanno sentire, ogni giorno di più. Nel luglio 2008, due mesi prima del crollo Lehman, il petrolio era ai massimi (147 dollari al barile) e la Fed si preparava a contrarre ulteriormente la politica monetaria. Oggi il prezzo del barile comincia ad andare in ebollizione, dopo anni e anni di minimi storici e la Banca centrale Usa si prepara a un inizio di taper invernale. Chiaramente, un’ipotesi simile andrà a pesare drammaticamente sulle stime economiche dei vari Paesi. Italia in testa, la quale giova ricordare che sconta con tre mesi di ritardo il rallentamento economico tedesco, quantomeno a livello industriale. Il che significa che attorno alla fine dell’anno e l’inizio del 2022, le nostre aree maggiormente produttive patiranno il fall-out che gli istituti tedeschi hanno appena certificato con il taglio dell’outlook.
Insomma, occorre un alibi. Occorre un capro espiatorio. Perché dopo mesi di fanfare trionfalistiche, il rischio è quello evocato da Mario Draghi nella conferenza stampa pre-vacanze estive: esaltarsi per quello che in realtà rischia di essere non soltanto un rimbalzo del gatto morto ma anche con scarsissima riuscita, quantomeno rispetto alle attese. Et voilà, prima torna in auge il pericolo fascista giusto in tempo per il ballottaggio di Roma. E poi, il braccio di ferro sul green pass con le categorie che sovrintendono alla logistica, la vera leva che può alzare o affossare la ripresa. Detto fatto, se sarà caos, il responsabile per la delusione legata al Pil sarà pronto per essere sventolato al pubblico ludibrio. E il Governo dei migliori, ancora per qualche mese, potrà millantarsi come tale. Poi, però, arriverà l’Europa a battere cassa. E non si accontenterà della riforma Cartabia, stavolta. Non si tratta forse di un’incruenta strategia della tensione?
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