Cerchiamo di mettere in prospettiva la situazione. L’Europa ha totalmente fallito la sua ricerca di un’alternativa al gas russo, quantomeno nei tempi e nei modi trionfalmente annunciati fino all’altro giorno. Il fatto che Ursula von der Leyen abbia sentito il bisogno di vestirsi come una hostess di Ryanair (o una tifosa dell’Hellas Verona in trasferta, a scelta) e di incentrare il 90% della carica emotiva e contenutistica del suo discorso sullo Stato dell’Unione su un attacco frontale alla Russia parla chiaro: sotto il vestito niente, esattamente come nel cult-movie anni Ottanta.
Il price cap è archiviato, il tutto con buona pace del Governo dei sedicenti Migliori. In compenso, la disperazione ha armato la mano della Commissione. La quale, forse convinta dall’ottimo risultato ottenuto proprio in Italia da un’intuizione simile, ha deciso di dar vita a una versione energetica del mitico piano Juncker. Ovvero, di fatto un veicolo a leva basato su un tetto fissato questa volta sui profitti delle aziende energetiche. Grazie al quale l’Ue dovrebbe incamerare 140 miliardi di euro per garantire sostegno e sollievo al caro-energia.
Per capirci, la tedesca Uniper che sta per essere nazionalizzata per non lasciare il Paese senza luce, ha bruciato oltre 10 miliardi di euro pubblici in un mese sullo spot market solo per garantire erogazione all’utenza senza toccare gli stoccaggi. Se anche quel farsesco meccanismo funzionasse, a quanto servirebbero quei 140 miliardi, oltretutto fissati come massimale? E come anticipato, il magro bottino ottenuto dal Governo Draghi dagli extra-profitti ci fa pensare che anche in questo caso, i padroni del fossile troveranno l’inganno, dopo che qualcuno avrà fatto la legge. E i futures del gas hanno immediatamente prezzato il clamoroso fallimento europeo, tornando sopra quota 200 euro MWh e chiudendo la giornata di contrattazioni di mercoledì addirittura a 222 euro MWh. Chi rischia soldi difficilmente si fa irretire dalle chiacchiere, dalla retorica e dagli abbinamenti arditi degli outfit.
Ed eccoci al punto: attenzione, d’ora in poi, a valutare e soppesare seriamente le parole. Ad esempio, quelle giunte da Mosca nelle ultime 48 ore. Ancora una volta il messaggero è stato l’ex presidente Dmitrj Medvedev, il quale ha detto chiaramente come quanto sta sviluppandosi in Ucraina possa e debba essere visto come il prologo alla Terza Guerra Mondiale. Paradossalmente, più ottimista di papa Francesco, a detta del quale siamo già nel pieno di un incubo globale. In rapida successione e sempre come reazione alla controffensiva ucraina, ecco che il Cremlino alza il tiro. Verso Washington: Se gli Stati Uniti forniranno missili a lungo raggio all’Ucraina, diverranno parte in causa del conflitto. Una minaccia non vana. E non lanciata a caso come un paio di dadi. Lo confermava il Financial Times, il quale dopo aver chiaramente parlato di un più che cauto ottimismo degli analisti americani rispetto alle prospettive che attendono ora sul campo le forze ucraine, rendeva noto proprio come alla luce dei recenti successi, Kiev stia mettendo pesante pressione su Washington affinché cominci a fornire jet da combattimento e missili a lunga gittata. Esattamente quanto ritenuto da Mosca la red line da non superare, poiché in caso contrario il conflitto con gli Usa da proxy diverrà diretto. E in punta di articolo 5, questo comporterà il coinvolgimento dell’intera Nato.
Il problema? Semplice. E lo ha messo nero su bianco ieri mattina un analista di punta di Bloomberg, in un articolo titolato in modo da lasciare ben poco spazio all’interpretazione: Putin’s war machine may be secret weapon helping prop up the economy. Ovvero, l’escalation militare su cui Kiev sta puntando tutto e che ha portato il Presidente Zelensky ha promettere sul campo addirittura la riconquista della Crimea, in realtà potrebbe essere esattamente ciò che serve al Cremlino per tamponare i fall-out economici. Il motivo? Eccolo: l’enorme surplus garantito dalle entrate energetiche è ormai quasi del tutto evaporato, quindi Putin potrebbe essere tentato dall’opzione moltiplicatrice del Pil del warfare. Ovvero, utilizzare l’industria della difesa come generatore di crescita e bilanciatore della crisi di altri settori messi in crisi dalle sanzioni occidentali e dalle spese militari.
E i numeri già oggi parlano chiaro: la produzione dei cosiddetti finished metal goods – una categoria merceologica meramente statistica che normalmente viene utilizzata per identificare posateria e coltelleria, ma in realtà include, armi, bombe e altri tipi di munizionamento – è aumentata di quasi il 30% nel mese di luglio su base annua. Il tutto dopo un netto declino registrato nei mesi precedenti. E lo stesso vale per la sottocategoria dei cosiddetti other vehicles and equipment, normalmente riferita – in tempo di pace – alle biciclette, ma che contempla ufficialmente anche navi, velivoli e mezzi pesanti.
Insomma, dopo aver clamorosamente sbagliato tempi e modi della scommessa sanzionatoria energetica per mettere in ginocchio le casse del Cremlino, ora il rischio è quello di offrire su un piatto d’argento a Putin la scorciatoia per tamponare una crisi di surplus che questa volta rischiava davvero di tramutarsi a breve addirittura in deficit. Insomma, la tanto declamata e mediatica controffensiva ucraina potrebbe essere stata paradossalmente resa possibile a tavolino dalla Russia, la quale in questo modo si garantisce due colpi in canna. Un’escalation ritorsiva in grande stile (non convenzionale incluso) e, soprattutto, una leva fiscale ed economica enorme attraverso lo sfruttamento del warfare. Mosca copierebbe quindi il ciclico ricorso alla guerra operato dagli Stati Uniti per mettere le ali al complesso bellico-industriale (e con esso a Wall Street).
Insomma, come dice il detto, attenti a cosa andiamo cercando. Perché potremmo trovarlo. E sarebbe la Terza Guerra Mondiale.
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