Quella che possiamo definire la marcia di avvicinamento di Mario Draghi a palazzo Chigi si è basata essenzialmente su due tappe. Primo, l’intervento al Meeting di Rimini dell’agosto 2020. Quasi un manifesto. Secondo, la pubblicazione e presentazione del piano del Gruppo dei 30 – Reviving and restructuring the corporate sector post-Covid – cui l’ex numero uno della Bce aveva lavorato con l’ex governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan. Era lo scorso dicembre.



Il concetto chiave del primo intervento fu quello del debito buono, quello del secondo invece era la necessità di sostegni mirati all’economia che evitassero il proliferare di cosiddette zombie firms. Fondamentali, entrambi. Soprattutto per capire come il presidente del Consiglio stia approcciando al periodo delicatissimo della ripartenza economica a seguito della terza ondata, nei fatti strettamente connesso alla fase di transizione del piano di supporto della Bce, quel Pepp che dalla riunione del 10 giugno dovrebbe uscire ridimensionato. Stante anche i numeri macro dell’eurozona, come mostra questa tabella relativa alle prospettive di primavera sui tassi di crescita dei vari Pil nazionali rese note ieri dalla Commissione Ue.



Temo che una larga parte dei partecipanti politici alla coalizione di governo non abbia ben chiaro il potenziale dirimente di questa concomitanza di eventi per il futuro del nostro Paese. Altrimenti, eviterebbe certe prese di posizione ridicole per un’ora di coprifuoco. Ma attenzione, perché un terzo elemento fondamentale è emerso a inizio settimana, quando il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha detto chiaro e tondo che senza una riforma del sistema entro fine anno sono a rischio tutti i fondi del Recovery e non soltanto quelli destinati al comparto di sua competenza. Com’era la favoletta delle troppe condizionalità legate al Med che vi hanno raccontato per mesi i sovranisti di ogni risma, quelli che pensavano di risolvere ogni problema con la bacchetta magica autarchica del ciclostilare Btp? Questa non è una condizionalità grossa come un condominio, forse? E meno male che c’è l’Europa a imporcela una riforma della giustizia, stante lo stato pietoso e sempre meno edificante che sta emergendo proprio in questi giorni.



Attenzione però a ritenere che quella avanzata dal ministro Cartabia sia solo una minaccia formale, uno spauracchio da agitare per far terminare il chiasso da parte dei bambini indisciplinati del Governo di unità nazionale. C’è dell’altro. E arriva dal medesimo Gruppo dei 30, il quale il 5 maggio scorso ha pubblicato il suo ultimo report, dedicato questa volta al tema caldissimo del debito sovrano nell’era post-Covid. Per l’esattezza, il titolo completo è Sovereign debt and financing for recovery – After the Covid 19 shock. Ma è il sottotitolo ad aprire scenari più interessanti: Next steps to build a better architecture. E sapete cosa compare fra le varie raccomandazioni che il Gruppo dei 30 avanza ai Paesi e alle entità sovranazionali per una migliore gestione e architettura del debito sovrano e delle sue dinamiche, in epoca di evidenti squilibri legati all’abuso di deficit e scostamenti come risposta allo shock pandemico? Un qualcosa che salta fuori ciclicamente, da alcuni evocato come la salvezza assoluta e da altri temuto come la grandine: la messa in campo dei DSP da parte del Fondo monetario internazionale come strumento di finanziamento a lunghissimo termine per i Paesi più in difficoltà.

Cosa sono gli DSP è relativamente presto detto: sono i cosiddetti diritti speciali di prelievo (Special Drawing Rights, SDR), ovvero una componente delle riserve delle Banche centrali dei Paesi membri del Fmi nata con gli accordi della Giamaica del 1969 e allocate quando rinviene la necessità di incrementare le attività di riserva globali. Di fatto, un basket monetario misto composto da dollaro (41,73% del totale), euro (30,93%), yen giapponese (8,33%), sterlina britannica (8,09%) e dal 2015 in poi anche dallo yuan cinese con una proporzione d’ingresso del 10,92%. Di fatto, i DSP non sono una valuta vera e propria, ma piuttosto un diritto di acquisire una o più delle valute liberamente utilizzabili (Freely usable currencies, nella terminologia dell’FMI) detenute nelle riserve ufficiali dei Paesi membri.

I DSP vengono allocati in proporzione alla quota versata da ogni Paese al Fmi: se un Paese ha bisogno di utilizzare i propri DSP, contatta la Banca centrale di uno Stato membro che non ne ha bisogno al fine di scambiarli (operando così uno swap) contro una delle suddette valute liberamente utilizzabili. In questo caso, il Paese richiedente liquidità in valuta paga un interesse in proporzione ai DSP ceduti, mentre quello offerente lo guadagna. E per quanto apparentemente orwelliano, stante il contesto globale di finanziarizzazione che implica, il processo di utilizzo dei DSP è stato già testato nel 2009 dopo la crisi Lehman Brothers, con oltre 204 miliardi di DSP (equivalenti a 313 miliardi di dollari statunitensi e 242 miliardi di euro, al cambio di fine 2011) allocati presso i Paesi membri del Fmi. Circa un terzo delle riserve globali dell’epoca, il cui ammontare era di circa 1.000 miliardi di dollari.

E qui occorre drizzare le antenne, quantomeno a mio modesto avviso. A livello generale, infatti, si pensa che l’utilizzo dei DSP sia limitato all’aiuto ai Paesi emergenti o in via di sviluppo – una sorta di versione finanziaria del Live Aid -, ma, in realtà, questi sono solitamente beneficiari residuali, poiché sono i Paesi più ricchi – e quindi detentori di maggiori quote – a gestire il banco. Quindi, a meno di una moral suasion più o meno diretta da parte del Fmi verso questi ultimi, affinché cedono i loro diritti ad altri Paesi più bisognosi, il meccanismo rischia di tramutarsi in un’enorme operazione Argentina. Ovvero, un ciclico salvataggio attraverso un commissariamento esterno morbido. Di fatto, il rischio è quello di un Troika scomposta. Ovvero, Commissione Ue e Bce che controllano rispettivamente stato delle riforme e sostenibilità del debito del nostro Paese e Fmi che sovrintende all’intero processo dall’alto dell’allocazione dei DSP.

E il Gruppo dei 30 parla della necessità potenziale di dispiegare l’arsenale di 650 miliardi di dollari di DSP del Fmi per fronteggiare la crisi pandemica, tre volte tanto quanto messo in campo dopo il crollo Lehman. Il tutto per creare i presupposti di an augmented pandemic support window at the International Monetary Fund (IMF) – with longer repayment periods – to mobilize more of the IMF’s non-concessional resources for a broader range of vulnerable countries. Se saltassero per caso i soldi del Recovey Fund, come prospettato dal ministro Cartabia e la Bce smettesse di operare in modalità di supporto strutturale del nostro spread, ipotesi pressoché assodata, quale altra via avrebbe il nostro Paese per evitare la ristrutturazione tout court del suo debito, salito al 160% del Pil a colpi di scostamenti? Una forma alternativa di ristrutturazione pressoché ciclica e continuativa, esattamente come quella prospettata dal Gruppo dei 30 per uscire dalla crisi globale, la seconda in dieci anni dopo quella finanziaria. Non a caso, nel documento si parla di a broader range of vulnerable countries come destinatari dell’operazione epocale sui DSP.

Lo ripeto: forse chi sta al Governo non ha ben capito la posta in gioco e l’alternativa a un’ineluttabile riforma radicale della malapianta statalista di questo Paese, pressoché in ogni ambito. Stavolta non si scherza, il big reset che seguirà la fase pandemica acuta non presuppone promesse a babbo morto, come accaduto finora. La minaccia del ministro Cartabia si basa su dati di fatto che sono già prezzati in dinamiche sovranazionali che si muovono in parallelo con le baruffe chiozzotte dei Governi, ignorandole e operando su binari differenti. E finire sotto il controllo del Fmi significa aver ipotecato il proprio futuro prossimo per almeno un paio di generazioni, altro che l’austerity che qualche buontempone critica e maledice, associandola alle richieste all’acqua di rose (e, come nel caso della giustizia, più che sacrosante) dell’Unione europea.

Attenzione a fare i conti (elettorali) senza l’oste: stavolta il rischio non è quello di scottarsi, ma di perdere l’uso delle mani. Perché i conti li faranno altri, gestendo direttamente la cassa.

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