Dopo il Black Thursday che ha fatto riecheggiare sinistri ricordi del 2008, Wall Street – e prima di lei, l’Europa – nell’ultima sessione della settimana ha messo a segno un rimbalzo record. La notizia è stata un po’ silenziata dalla proclamazione dello stato di emergenza da coronavirus e dai conseguenti rumors legati al piano di supporto dell’economia Usa deciso dalla Casa Bianca, ma appare istruttivo, al fine di non dare per scontata una ripresa da business us usual dei mercati dopo lo shock delle ultime due settimane, mettere in prospettiva la magnitudo della performance della Borsa Usa con la liquidità immessa nel sistema lo stesso giorno dalla Fed, come fanno queste tre immagini. Insomma, per garantire quel recupero a pieni polmoni di Wall Street sono serviti soltanto 1037 miliardi di dollari! Ovvero, il corrispettivo di due aste term da 500 miliardi l’una a 31 e 84 giorni di maturazione e acquisti diretti di Treasuries per altri 37 miliardi. Tutto in un solo giorno. A cui, appunto, va a sommarsi la messe di denaro promessa da Washington per sostenere l’economia in vista di un più che probabile dilagare del virus Oltreoceano.



Ma ecco una seconda particolarità: nonostante questo diluvio senza precedenti di liquidità, il misuratore più ampio del mercato azionario Usa – Nyse Composite Index – ha chiuso al di sotto dei massimi del 2007, registrando il collasso più rapido della storia da picco a bear market, ovvero un calo superiore al 20% nel periodo 12 febbraio-11 marzo. Insomma, non solo la magnitudo dell’accaduto resta comunque un qualcosa di drammaticamente sistemico che difficilmente non avrà strascichi, ma viene da chiedersi se quanto fatto finora dalla Fed sia stato almeno sufficiente per placare la sete di dollari del sistema, visto che altrimenti starebbe configurandosi il modello di mercato sussidiato e centralizzato più caro della storia.



E la risposta a questa domanda, decisamente esplicita, arriva da questo ultimo grafico, sempre relativo alla giornata del 13 marzo: gli spreads Fra-Ois, di fatto il misuratore proxy dello stress da liquidità del mercato interbancario Usa, hanno proseguito la loro corsa al rialzo, lasciando gli spettatori con due soli opzioni di spiegazione possibili. Una peggiore dell’altra: o una carenza di liquidità in dollari che è ben lungi dall’essere stata soddisfatta dal bazooka della Fed oppure la paura – per ora ancora silenziata e relegata nei meandri tecnici del mercato – di una crisi sistemica del credito bancario.



Nel giorno dei tre indici principali di Wall Street tutti in area +10%, il livello di stress finanziario statunitense ha raggiunto quello medio del 2009, quando ancora le macerie di Lehman Brothers erano in parte fumanti. E ben più alto di quello del 2011, quando i tremori sovrani dell’eurozona sembravano pronti a innescare un’altra crisi globale. Al di là della regola aurea che invita a essere guardinghi verso certi “rimbalzi del gatto morto” troppo in stile Serghei Bubka, qualcosa nel sistema pare decisamente fuori controllo. Se non del tutto fuori uso. Pensavate che l’infelice uscita di Christine Lagarde fosse unicamente ascrivibile alla sua ontologica inadeguatezza al ruolo (a proposito, benvenuto e ben svegliato all’esercito di detrattori dell’ultim’ora)? No. In cuor suo sa benissimo che la situazione reale dl mercato, salvo una poco probabile (almeno nell’immediato) ripresa in grande stile della politica di stimolo da parte anche della Pboc, sta per divenire molto simile a quella di alcuni reparti di terapia intensiva finiti sotto stress: si priorizzano le situazioni, scegliendo in maniera il più possibile fredda e razionale i casi con maggiore indice di potenziale sopravvivenza.

Quando parlava di una Bce che non può operare sugli spread, di fatto non diceva nulla di fuori contesto o di falso: semplicemente, tagliava con l’accetta una situazione che normalmente si vorrebbe gestita con maggior tatto. Se infatti alle parole dovessero seguire i fatti, un ragionamento come quello imporrebbe una sola cosa, nel proseguo della lotta alle forze recessive già in atto: un aumento esponenziale dell’aiuto all’economia reale del Nord Europa (Francia e Germania) attraverso il programma di acquisto corporate (Pspp) in seno al Qe – non a caso già espanso nei controvalori – a discapito, magari, di un ridimensionamento della capital key rispetto agli acquisti pro quota di debito sovrano. Perché oggi, se la questione non fosse ancora sufficientemente chiara, il nodo del problema è esattamente come nel 2008 e nel 2011: le dinamiche di mercato e la conseguente crisi di liquidità. Finanza e banche, tutto qui. Altro che virus e quarantene.

Nel periodo che portò al crollo Lehman ci pensarono i subprime ad assumersi il ruolo di capro espiatorio, poi fu il turno dei debiti governativi e del totem Grecia. E ora tocca alla pandemia: ma alla radice del male, come mostra chiaramente il grafico dello stress interbancario pubblicato prima, c’è sempre e solo l’abuso di esposizione a leva che porta a colossali e improvvise crisi di liquidità. Abbiamo vissuto, nei giorni scorsi e fino al rimbalzo totalmente liquidity-driven di venerdì (nel caso europeo, invece, garantito dalle promesse di una Bce in versione penitente e da Ursula Von Der Leyen), la più grande margin call globale della storia. E per quanto possa fare comodo scaricare ogni colpa e ogni reazione estrema sul coronavirus, determinate dinamiche non subiscono un deterioramento in tempo reale così drastico per un impatto macro che mostrerà la sua vera faccia solo alla fine del trimestre. Tanto più che, narrativa vorrebbe, dopo aver vinto la battaglia contro il virus, la Cina starebbe tornando alla normalità operativa, seppur lentamente.

Quindi, a fronte di un’Europa dalla crescita strutturalmente asfittica che diviene nuovo epicentro del contagio, la “fabbrica del mondo” sarebbe invece pronta a rimettersi – ancorché gradatamente – in marcia. Quindi, qualcosa non torna. Esattamente come la logica che ha determinato il rimbalzo di venerdì, figlio di un combinato espansivo della Fed senza precedenti e senza possibili sviluppi di futura stabilizzazione sistemica. A meno che non si stia pensando davvero all’istituzionalizzazione dell’helicopter money in stile giapponese, come risposta a una crisi di indebitamento che si manifesta già oggi – e su base pressoché quotidiana, come mostrano le aste repo e term – nella sua patologia più classica e di immediato deterioramento. Ovvero, la crisi di liquidità prodromica a un credit crunch più generale. Nel quale caso, preparatevi a un sostenuto e sostanziale rimbalzo da festeggiare. Salvo poi finire nel burrone, come Wile Coyote.