Dio benedica l’informazione on-line. E non tanto e non solo perché consente aggiornamenti h24 e 365 giorni l’anno, bensì perché attraverso comodi e rapidi motori di ricerca offre a tutti la possibilità di riscontro. Quello che la gente forbita chiama fact-checking. Quando, ormai qualche mese fa, prima dello tsunami Covid-19, scrissi che non era affatto detto che nel novembre 2020 si sarebbe votato per le presidenziali Usa e che un rinvio non era affatto da escludere come ipotesi, immagino i colpetti di gomito e le risatine di molti. Chissà se oggi ridono ancora. Perché quando il Presidente degli Stati Uniti utilizza il suo social network di riferimento per comunicare al mondo che, causa epidemia ancora non sconfitta, l’appuntamento elettorale d’autunno potrebbe tramutarsi nel più fraudolento e inaccurato della storia, visto che dipenderebbe a livello universalistico dal voto postale, allora qualcosa cambia. Nel paradigma, più che nella narrativa.
Intendiamoci, questo non significa affatto che il voto verrà rinviato. Ma il varco del Rubicone rappresentato dal solo tweet di Donald Trump appare più che sufficiente a farci capire il carattere di snodo spartiacque del momento che sta aprendosi. Quella del 2020 sarà davvero un’estate calda. Bollente.
Ora, mettiamo in fila qualche elemento. A partire da quello rappresentato da questo grafico, il quale mostra come in pressoché perfetta contemporanea con la sparata della Casa Bianca, le autorità statunitensi avessero comunicato che il Pil nel secondo trimestre era crollato a livello annualizzato di qualcosa come il 32,9%. Per trovare un dato di lettura negativa precedente altrettanto orrendo occorre tornare indietro al 1958, quando però si toccò “solo” il -10%.
Ora, è chiaro a tutti che nel mondo manipolato del new normal da Qe perenne, paradossalmente una notizia simile avrebbe potuto addirittura tramutarsi in un driver degli indici azionari, i quali attraverso gli algoritmi pavloviani di Wall Street scontano la famosa legge del bad news is good news, visto che garantisce una Fed che non arretra di un millimetro nell’azione di supporto. Problema duplice: questo grafico mette in comparazione quanto messo in campo da inizio d’anno a oggi da Federal Reserve e Bce – attraverso il proxy del cambiamento di bilancio – a livello di supporto di mercato ed economie.
Come vedete, il dato è totalmente discrepante dalle due sponde dell’Atlantico. L’Eurotower, la quale sembra che fino a oggi abbia comprato questo mondo e quell’altro, in effetti ha operato principalmente a livello di fornitura creditizia, di fatto garantendo finanziamento al comparto bancario per rafforzare il meccanismo di trasmissione di liquidità verso cittadini e imprese. Campa cavallo, in realtà, visto che finora il tutto si è tradotto pressoché unicamente in sistemazione emergenziale di bilanci da mani nei capelli, stacco di dividendi (non a caso, la Bce ha appena fatto come Portobello e detto stop) e finanziamento di operazione di M&A. La Fed, invece, ha acquistato assets come non ci fosse un domani. Ed ecco il problema: quel dato orrendo del Pil è arrivato proprio poche ore dopo l’ultima riunione pre-estiva del Fomc della Banca centrale Usa, il quale ha confermato tutti gli strumenti in atto per supportare il sistema attraverso acquisti di qualsiasi forma cartacea venga proposta come collaterale, financo le figurine del baseball. Insomma, un qualcosa che il mercato avrebbe dovuto festeggiare.
Invece, subito dopo le parole di Jerome Powell, i futures dell’oro con consegna a dicembre sono schizzati in alto. Sintomo che il deep market (di fatto, il corrispettivo finanziario del Deep State politico, ovvero il residuo di libero mercato ancora presente) prezza altro. È chiaro che, a fronte di un proxy simile, lasciare che una notizia come il crollo del Pil del 32,9% viaggiasse libera nell’etere, senza un qualcosa che la mandasse in secondo piano, rischiava di far crollare l’intera impalcatura di credibilità residua della Federal Reserve verso i cittadini americani, non tanto verso i mercati manipolati che mantiene in vita ormai da anni. Quindi, la mossa di Donald Trump è stata solo una boutade, garantita nella sua presunta credibilità di fondo dall’esplosione a catena di nuovi casi di Covid nel Paese, ormai un ricettacolo federale di focolai?
Non solo, ovviamente. Perché come certe manfrine hanno funzionato in Italia per preparare la strada all’attivazione del Mes, di fatto ufficializzata dalla quasi massonica nota di maggioranza legata allo scostamento di bilancio appena votato ma ancora ben poco percepita nella realtà dall’opinione pubblica, così la granata nello stagno lanciata dalla Casa Bianca potrebbe – paradossalmente – essere stata l’opzione nucleare a livello comunicativo necessaria e propedeutica ad altro: un nuovo lockdown. Benedetto.
Perché dico questo? Guadate questi due grafici, il primo dei quali fa parte dell’ultimo report di Goldman Sachs relativo alle chiusure di punti vendita di commercio al dettaglio negli Usa. Da inizio anno, i negozi chiusi o che hanno già comunicato la chiusura permanente ha raggiunto quota 7.430 contro i 12.370 dell’intero 2019, più della metà. E con il peggio ancora da scontare, poiché in base a calcoli della banca d’affari, il fall-out del primo lockdown da Covid sul commercio si sostanzierà da qui a fine anno, quando il numero totale di attività fallite è atteso già oggi fra le 20 e le 25mila unità.
Il secondo grafico, poi, è ancora peggiore, se possibile. Perché va a toccare l’americano medio nel bene più caro che ha, la casa. E tocca una sotto-categoria particolarmente sensibile, quella dei cittadini in affitto in un Paese che da sempre è basato sul mutuo immobiliare come colonna portante di economia e società. Bene, con il programma di sostegno alle famiglia da 600 dollari la settimana che scade il 1 agosto e la proposta dei Repubblicani al Congresso che vede il nuovo stimolo limitato a 1 triliardo di dollari di controvalore contro i 3 proposti invece dai Democratici (oltretutto sotto forma di compensazione dei salari perduti fino al 70% e non di sussidio universalistico), ecco che alle porte sta per sostanziarsi quella che è stata già definita una eviction wave, un’ondata di sfratti. Senza precedenti. Nemmeno dopo la crisi subprime del 2008, quella delle ripossessioni di massa di immobili che i mutuatari non erano più in grado di permettersi.
Il grafico parla chiaro: su dati dell’Household Pulse Survey del 15 luglio scorso, fino al 40% degli affittuari statunitensi sarebbe a imminente (se non immediato) rischio di sfratto. I pallini con il tono di rosso più acceso rappresentano gli Stati con la percentuale maggiore di cittadini che devono fare i conti giocoforza con la prospettiva di passare l’estate sotto le stelle, ovvero di non aver più un tetto. Guardate chi spicca: la Florida, casualmente nuovo Stato focolaio. Scommettete che, da qui a breve, West Virginia e Minnesota vedranno esplodere nuovi clusters? E poi, magari, il Sud profondo (conservatore e in parte ancora confederato) del Missouri e del Tennessee?
E cosa può bloccare la eviction wave, oltre ovviamente che all’ennesima operazione di moral suasion da tipografia Lo Turco verso le banche del Paese, in modo da ammansire i proprietari di casa ed evitare uno tsunami in piena regola di sfratti? Solo l’emergenza sanitaria, il lockdown. Nessuno butta per strada interi nuclei familiari, milioni di persone, mentre ancora il virus impazza. Non vi pare?
Attenzione, siamo a uno snodo epocale. Epocale davvero. L’estate penso sia destinata a riservarci sorprese a raffica, mentre ovviamente noi saremo qui a discutere di monopattini, banchi di scuola semovibili e altre amenità pentastellate. Fino all’ultima, l’October surprise. Quella che potrebbe davvero cambiare gli equilibri in campo. Del tutto.