Oggi comincia l’annuale World Economic Forum di Davos, il corrispettivo del Festival di Sanremo per quanto riguarda le materie economiche. Già, perché esattamente come la kermesse sonora ligure, il simposio di accademici, regolatori e giornalisti che ogni anno anima i 740 degli albergatori alpini svizzeri rappresenta alla perfezione la trasposizione del detto “tanto fumo e poco arrosto”: come chi ama la musica rifugge l’abominio rivierasco, così chi è minimamente interessato con serietà alle questioni economiche tratta giustamente la riunione elvetica come si farebbe come una trasmissione di Barbara D’Urso riguardo il dibattito politico. Avete mai sentito uscire da Davos un’analisi che anticipasse gli eventi e, magari, garantisse che il mondo si mettesse in guardia, anticipandoli o frenandoli sul nascere? No. Fidatevi di me. E se non volete farlo, date vita a una vostra breve e personalissima rassegna stampa delle edizioni dal 2007 a oggi: parole, quantità industriali di parole senza il minimo costrutto.



I veri problemi? Nemmeno sfiorati, ovviamente. D’altronde, come si fa a dire le cose come stanno, se si fosse costretti a farlo in un simposio ampiamente sponsorizzato dalle principali banche e fondi mondiali? Sarebbe un po’ come accettare l’invito a pranzo di un superiore e, oltre a presentarsi in jeans e a mani vuote, a tavola si intavolasse una discussione sulle frequentazioni extra-coniugali della moglie: capite da soli che non si fa. Quantomeno, se si vuole continuare a lavorare in quell’azienda.



Sicuramente, quest’anno a Davos saranno due gli argomenti di discussione: la lotta ai cambiamenti climatici e le sue implicazioni sulle politiche economiche dei governi e la crescente disuguaglianza reddituale nel mondo. Non è un caso che Greta Thunberg abbia già annunciato la sua rumorosa presenza al simposio e che proprio ieri, alla vigilia della sua inaugurazione, Oxfam abbia diffuso l’ennesimo e puntualissimo report pauperista in base al quale 2mila miliardari in tutto il mondo godrebbero della medesima ricchezza di 4,6 miliardi di persone. Patetici. Numeri buoni per una rapida crisi di coscienza a tavola, davanti alla pastasciutta e al telegiornale della sera: ma tranquilli, nulla che non passi con un bella donazione via sms a una delle tremila Ong che ci martellano incessantemente tramite spot televisivi. Il proverbiale cane che si morde la coda.



È un enorme Truman Show del dolore in offerta speciale e della bugia in saldo, se non lo avete capito. Perché paradossalmente, il problema non sono i poveri e nemmeno i ricchi. Bensì, i relativamente e percepiti benestanti. Ovvero, quella classe media in realtà sempre più proletarizzata dal 2008 in poi che, comunque, pur facendo fatica a tirare la fine del mese, può ancora permettersi una casa, bollette da pagare, figli a scuola, smartphone sempre aggiornati, abbonamento a Sky e una decina di giorni di vacanze all’anno. A quale prezzo, infatti, viene mantenuta in vita quell’apparente benessere di sopravvivenza in un mondo che annega nelle diseguaglianze, quanto costa a livello generale quel “limbo”?

Guardate questo grafico e cercherò di spiegarmi. Sapete il Qe globale e continuativo seguito al crollo Lehman in cosa si è sostanziato, al netto di non aver smosso nemmeno un plissé alla cosiddetta economia reale? Oltre un triliardo di dollari in buybacks azionari da parte delle 20 aziende statunitensi più grandi (qualcosa come 381mila dollari per dipendente), con il quale almeno tre di queste ultime (Apple, Microsoft e Google) hanno raggiunto e superato a loro volte il triiliardo di market cap e lo Standard&Poor’s si trova ora a più o meno un 5% di distanza incrementale dal record assoluto raggiunto in un mercato rialzista (2.498 punti).

Non male, in effetti. Peccato che, come mostra appunto il grafico, questo cocktail di follia monetarista abbia portato il livello degli assets finanziari negli Usa ad avere una ratio di 5.6x rispetto al Pil. Cosa significa? Semplice, grazie anche alla brama di arricchimento facile della cosiddetta Main street, della classe media che teme di perdere il giro in giostra nel mercato più favoloso dei tempi moderni, oggi l’intero mercato azionario è semplicemente divenuto too big to fail. Non può non essere salvato, pena il crollo totale dell’impalcatura del nostro cosiddetto sistema di vita, la way of life. Ad esempio, addio credito al consumo, addio rate, addio possibilità di fare debiti sui debiti per cercare di estinguere quelli pregressi, addio carte di credito per coprire i rossi di quelle che abbiamo già in tasca, addio Tag e Taeg a permetterci lussi che in realtà sono fuori dalla nostra portata (e dalle nostre esigenze reali). Addio finanziamento per automobile, istruzione superiore per i figli, agognate vacanze. E anche i mutui immobiliari cominceranno a dare un’occhiata minimamente seria ai rating creditizi di chi li richiede, perché non ci saranno più banche di Wall Street pronte a rifinanziarie i piccoli istituti o le finanziarie private che garantiscono al ceto medio impoverito di non sentirsi tale, bensì parte della più grande economia dagli anni Sessanta.

Eh già, perché guardate un po’ questo altro grafico, il quale mette in prospettiva con dati aggiornatissimi i pilastri su cui si posa l’America dei record di Trump (ma quella di Obama, Clinton o Bush junior non era certo differente): debiti. Debiti record. Per pagare la scuola ai figli, per acquistare l’auto e per campare fino a fine mese utilizzando la “dilazione” a caro prezzo delle carte di credito: ecco il sistema che, lentamente ma inesorabilmente, sta prendendo piede in tutto il mondo, per somma gioia del sistema finanziario che ci campa su interessi, commissioni e spese di istruttoria. ben più che sulla speculazione finanziaria.

Non fatevi abbindolare dalla facile retorica populista che vorrebbe al muro gli hedge funds e i loro gestori: certo, speculano senza creare nulla, ma, quantomeno, sono fra i pochi soggetti che hanno ancora una componente di rischio propria. Altrove, il paracadute delle Banche centrali garantisce cieli azzurri per contratto a tutti quanti. A quale costo sociale e di lungo termine, però? Non sono proprio le varie Fed e Bce di turno i principali motori di diseguaglianza al mondo, al netto dei report da terrorismo morale di Oxfam e altre Ong? Le quali si appoggiano su conti correnti, bonifici, utilizzi di carte di credito, tecnologia poi quotata sul Nasdaq: e cosa porta tutto questo? A questo, l’inganno sommo di tutti gli inganni. Il sovranismo o nazionalismo globale come risposta all’avidità delle élites pre-Lehman.

Guardate chi è stato il principale beneficiario del taglio fiscale voluto, a colpi di deficit, nella primavera del 2018 da Donald Trump: le grandi banche di Wall Street. E poi? Le grandi corporations, stile Apple, le quali hanno rimpatriato i fondi detenuti all’estero in maniera “scudata” e per ringraziare debitamente la Casa Bianca del regalo e hanno poi usato gran parte di quel denaro per operare buybacks di propri titoli azionari. Facendo tutti contenti: le valutazioni e il market cap salgono, il flottante scende, i dividendi e i bonus fioccano e Donald Trump poi twittare tutto il giorno riguardo i dati record dell’economia sotto la sua amministrazione.

Parleranno di questo a Davos, a vostro modo di vedere? Faranno una bella tavola rotonda al riguardo, magari dal titolo “Combattere davvero il sistema significa scordarci il nostro modo di vivere”? Io non penso. D’altronde, è molto più comodo e mediaticamente appagante per le Banche e i fondi di investimento lanciarsi nel business dei green bonds, benedetti da Greta e dalla sua pletora adorante di seguaci e capaci già di decuplicare il loro controvalore negli ultimi dieci anni.

Qual è il problema? La gran parte di quella carta ecologica e sostenibile non necessita statutariamente di certificazione esterna del rating: quindi, primo non si sa se i progetti che vanno a finanziare sono davvero green. Secondo, dentro un green bond potreste trovare le tranche più pericolose di una bella subordinata bancaria o di una utility energetica californiana sull’orlo del default, senza nemmeno saperlo. Basta che quella stessa banca o utility abbiano emesso a loro volta obbligazioni autocertificate come ambientalmente compatibili, in modo da renderle appetibili al nuovo business. E il sistema gode. E si perpetua. È tutto un grande, enorme carrozzone. Una pantomima magistralmente orchestrata che garantisce l’impressione che tutto cambi affinché, in realtà, non cambi nulla. Per il semplice fatto che nessuno può o vuole permetterselo: banche, fondi, politica, gente comune che pensa al proprio tornaconto e poi, fra una diretta su Dazn e un reality, anche ai destini del mondo.

Davos, in questo, rappresenta la sintesi perfetta dell’ipocrisia dominante: chiacchiere senza costrutto ma capaci di creare la cornice perfetta al quadro d’insieme, alla grande cortina fumogena del capitalismo dal volto umano e della rivoluzione dal basso, per l’ambiente come contro le diseguaglianze. In realtà, siamo alla resa dei conti e si sta solo cercando di prendere tempo, in attesa che qualcuno – magnanimamente – metta la mano in tasca e decida si saldare il conto, senza bisogno di chiamare la polizia. Insomma, nuovo e permanente Qe. Magari, addirittura helicopter money.

Temo, però, vista anche la magnitudo di debito in cui nuotiamo, che l’era del free lunch, dei pasti gratis, sia finita. Indovinate chi pagherà per tutti, convinto però che il gioco valga la candela, perché ha in mano 100 azioni della XYZ e si sente Gordon Gekko? Bravi, avete capito.