L’ultima moda in fatto di massimalismo da quattro soldi è l’indignazione a mezzo stampa per il lockdown totale a Shanghai. Probabilmente, i più scafati del settore hanno sentito nell’aria la fine dell’onda lunga dei massacri quotidiani in Ucraina – o, quantomeno, la possibilità di attribuirne la paternità unilateralmente e senza il bisogno del mitologico fact checking – e da buoni cagnolini della Nato stanno ampliando il quadro d’insieme: la guerra non è più nemmeno fra Russia e Alleanza Atlantica, ma fra Cina e Usa. Di proxy in proxy, verso lo showdown finale.
È vero, il lockdown in atto a Shanghai è di quelli da regime autoritario in seno stretto. Quasi dittatoriale. Anzi, proprio dittatoriale. Pensate però che la Cina lo abbia deciso solo perché ama, in quanto comunista, annichilire le libertà personali, magari al fine di inviare un raggelante segnale di primazia dello Stato sull’individuo? Restiamo con i piedi per terra. È meglio. Magari meno di moda, sicuramente meno strumentale all’ottenimento di qualche like sui social. Ma la verità è un’altra: quel lockdown serve. A tutti. In primis, per cercare di contenere un minimo l’ondata inflazionistica che il fall-out della crisi ucraina rischia di innescare da qui all’autunno in un quadro di prezzi già fuori controllo ovunque. Perché ciò che conta non è il cittadino chiuso in casa. Né quello che protesta in strada in una sorta di Tienanmen in sedicesimi per rivendicare del cibo e dell’aria, esempio di iconografia social che sta mandando in delirio moltissime testate giornalistiche occidentali. Ciò che conta è il porto di Shanghai chiuso. Perché un’inflazione come quella globale dei nostri giorni non la fermi con la pagliacciata dei rialzi dei tassi della Fed o con la fine del Pepp della Bce: occorre operare con il bazooka. Chiudere. Imporre un riequilibrio doloroso e drastico delle dinamiche di domanda e offerta, in modo da togliere acqua allo stagno della speculazione. E chiudere Shanghai come hub commerciale equivale a chiudere mezzo mondo.
Spietato? Certo. Ma quantomeno non ipocrita. Di fronte a noi abbiamo una tempesta perfetta economico-finanziaria senza precedenti, qualcosa in grado di tramutare il 2008 in una passeggiata nel parco. E i cinesi oltre che spietati sono anche pragmatici: non chiedono ai loro cittadini se vogliono la pace o i condizionatori accesi, cercano di evitare il disastro. Anteponendo il fine ai mezzi che si utilizzano per perseguirlo.
Guardate questo grafico, il quale ci mostra un altro effetto collaterale del lockdown di Shanghai: il volume di trading in yuan interno alla Cina da quando sono state imposte le restrizioni è sceso ai minimi da marzo 2020, periodo quantomeno simbolico per il mondo intero. Dai 30 miliardi di controvalore quotidiano su cui le banche operavano per conto dei clienti, oggi siamo a 16 miliardi.
Per capirci, a febbraio Shanghai ha pesato per il 29% di tutto il trading in yuan del Paese, più di ogni altra regione. E siccome quelle transazioni sono ancorate a importazioni ed esportazioni, questo crollo rappresenta il vero proxy del rallentamento economico in atto nel Dragone. Detto fatto, il mercato è esploso di gioia. E non perché goda nel vedere qualche milione di cittadini segregati in casa, bensì perché questa certificazione di brutte notizie per l’economia si traduce in aspettativa di intervento diretto dello Stato in suo sostegno. In particolare, aumento della spesa in infrastrutture e un ammorbidimento della regolamentazione sul settore real estate decisa durante il giro di vite pre-Congressuale della scorsa estate.
Avete più sentito parlare di default di Evergrande, per caso? Eppure quei fenomeni di Standard&Poor’s avevano messo il gigante delle costruzioni cinesi nella lista dei cattivi, addirittura in default selettivo. Proprio come hanno fatto ora con il debito russo. Tutto questo non vi spinge a porvi qualche domanda, quantomeno su quale sia il livello di pantomima in atto?
E attenzione, perché questo trend non farà altro che acuire ulteriormente la divergenza di politica monetaria già in atto fra Cina e Usa. Poiché la prima pare ormai prossima a un Qe più o meno ufficiale, mentre i secondi continuano a millantare 9 rialzi dei tassi entro dicembre e un’uscita più spedita dall’indigestione di bilancio della Fed. Questo a cosa porta? I rendimenti obbligazionari sovrani Usa, già oggi, sono più appetibili per il mercato di quelli cinesi, riducendo così l’allure del debito del Dragone. Altri vasi comunicanti, altro equilibrio globale da gestire con il bilancino. E con un dato del CPI atteso questa settimana e quasi certamente destinato a divaricare ulteriormente quella divergenza, tutto questo porterà con sé conseguenze ben superiori a quelle di ogni possibile mossa di una Banca centrale occidentale. Perché piaccia o meno, ormai è l’impulso creditizio cinese a determinare la durata dei cicli economici, già drasticamente scesa dai 5 anni canonici e ormai ampiamente manipolabile a livello di estensione e magnitudo di impatto. Il boom&bust non esiste più.
Insomma, piaccia o meno, il lockdown di Shanghai ha poco a che vedere con il Covid. E molto con la lotta contro il tempo imposta dalla tempesta perfetta di stagflazione in sedimentazione. Certo, è brutale. Addirittura spietato. Preferite gli scaffali vuoti nei supermarket, bollette astronomiche e un Def che ricordi molto le manovre economiche della Grecia dal 2012 in poi? Se volete, allora scendete in piazza contro la nuova Tienanmen sanitaria. Poi però finitela con le ipocrisie. O volete questo meraviglioso mondo della finanziarizzazione con i suoi ammennicoli consumistici che vi fanno sentire liberi e felici o la pace e la giustizia nel mondo: spiacente, solo Mario Draghi pensa che siano compatibili entrambi. Anzi, finge di pensarlo e darvelo a bere. D’altronde, uno che arriva al raschiamento del barile del ricatto morale sulla sudarella estiva in nome di Kiev, è chiaramente in rampa di lancio verso l’abbandono del Titanic. Voi invece resterete a bordo. E tranquilli, le scialuppe sono già oggi quasi tutte prenotate.
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