Com’è noto, non sono mai stato un estimatore di Donald Trump. Non l’ho mai demonizzato a priori, ma l’ho sempre ritenuto l’utile idiota al servizio di un Sistema di cui ha grandemente beneficiato, fra una speculazione e una bancarotta, millantando una vicinanza al popolo che in realtà non è mai esistita. È stato l’uomo del grande inganno, il protagonista del temporaneo morphing di una società profondamente diseguale e classista che doveva rifarsi realmente una verginità dopo il 2008 e la farsa del nuovo Glass-Steagall Act di Barack Obama, offrendo all’opinione pubblica lo specchietto per allodole del sovranismo, mentre Wall Street continuava imperterrita a macinare utili con i soldi a costo zero (e di tutti) della Fed.
Volete un esempio pratico? Ecco, ce lo mostrano questi due grafici, tanto per mettere la questione in prospettiva. Nei rampanti anni Ottanta, a un cittadino statunitense servivano meno di 20 ore di lavoro per acquistare un titolo azionario quotato sullo Standard&Poor’s 500. Oggi ne servono 141. Qualcosa non va.
E in quale contesto generale avviene questa mutazione storica? In quello che venerdì scorso ha visto la capitalizzazione di mercato a livello globale toccare il massimo record: 100 triliardi di dollari. Grazie anche, soprattutto dall’inizio della pandemia, proprio a quei cittadini che devono lavorare come pazzi per poter salire in giostra. Ma che si sono fatti irretire dalla narrativa dell’occasione storica, del mercato al rialzo del secolo, dalla febbre da Fomo, ovvero la Fear Of Missing Out: la paura di perdere il treno. Ecco il grande miracolo del morphing trumpiano: trasformare sudditi e pecore in adoranti e riconoscenti partecipanti al grande casinò globale. Magari, rischiando la casa ipotecata. Qualcuno lo chiama american dream, io la chiamo follia.
Detto questo, ancora più incredibile è come i media stiano nascondendo la realtà sottotraccia dell’America post-elezioni. Per tutti, Joe Biden è ormai a capo del team di transizione e si attendono soltanto le ultime scadenze burocratiche: il 10 dicembre per chiudere i conti con le dispute legali, i primi di gennaio per le suppletive in Georgia che decideranno il controllo politico del Senato e l’Inauguration day del 21 gennaio, quando il presidente eletto giurerà e si insedierà alla Casa Bianca. Sicuri che tutto stia andando così liscio? Intendiamoci: levatevi dalla testa che Donald Trump possa spuntarla a livello di cause e restare ancora in carica. Diverso, però, è il contesto in cui prenderà corpo il suo addio. Di fatto, il controvalore politico che gli dovrà essere corrisposto come buona uscita per i servizi resi al Sistema.
Giovedì scorso, quando mancava mezz’ora alla chiusura di Wall Street, la Pfizer ha reso noto di dover dimezzare la sua disponibilità di vaccini per il 2020, da 100 a 50 milioni di dosi, a causa di difficoltà sulla catena di fornitura. Immediatamente, gli indici Usa hanno sbandato, da bravi cani di Pavlov. In compenso, l’Asia ha ignorato la notizia nel trading del venerdì notte. Così come l’Europa, il mattino dopo. Il vaccino non è forse già più un market mover? Certo che sì. Il problema è che quella notizia non era una notizia. Basta andare indietro alla metà di ottobre con una ricerca su Google per ritrovare un comunicato stampa in cui la stessa casa farmaceutica fissava proprio a 50 milioni di dosi il suo target per il 2020.
Di fatto, chi ha giocato al rialzo su quel target? La narrativa generale e auto-generante della follia di mercato. Oltre, ovviamente, alla rinnovata ondata di timore sociale legata al Covid, tornato prepotentemente in cima alle preoccupazioni degli americani, anche grazie a un vero e proprio martellamento del sistema mediatico. Il quale, ovviamente, è ben felice di sciorinare numeri allarmanti su ricoveri e decessi. Per il semplice motivo che, altrimenti, dovrebbe raccontare lo stato di salute attuale della presunta più grande democrazia del mondo. Cos’era accaduto, infatti, sempre giovedì scorso e nelle ore precedenti al falso annuncio di Pfizer? Micheal Every di Rabobank ha dato vita a uno straordinario riassunto di quelle ore. Eccone i punti salienti.
Ad esempio, la Corte suprema del Wisconsin ha rigettato un caso relativo alla disputa su qualche migliaia di voti eliminati per “discrepanze tecniche”, ma non lo ha fatto perché la questione non sussiste, bensì perché il caso va prima presentato presso Corti di grado inferiore del medesimo Stato. Dove, ad esempio, due altri casi simili sono ancora in attesa di risposta. Ma non basta. Nei giorni scorsi, infatti, tutti i media italiani hanno rilanciato con enfasi la notizia della telefonata di Donald Trump al governatore repubblicano della Georgia, nella quale di fatto il Presidente uscente avrebbe di fatto chiesto la sua proclamazione a vincitore, nonostante il riconteggio avesse premiato Joe Biden. Nessuno, però, vi ha detto la ragione di quella telefonata così irrituale. Nel corso di un’audizione ad hoc presso la Commissione elettorale del Senato della Georgia, infatti, è stato visionato un filmato ripreso da telecamere a circuito chiuso nel quale si vedono quattro valigie di schede elettorali saltare fuori da sotto un tavolo e venire scrutinate e conteggiate, il tutto mentre le operazioni di spoglio erano ufficialmente sospese a causa di una tubatura rotta che aveva allagato il seggio.
Ci sono dozzine di testimoni pronti a confermare le irregolarità e la stessa analisi dei dati elettorali mostra discrepanze riconducibili unicamente al conteggio di preferenze illegittime. E alla luce delle evidenze, il governatore dello Stato della Georgia, lo stesso che avrebbe opposto un fiero no alla telefonata di pressioni politiche di Donald Trump, non ha potuto fare altro che contattare il Segretario di Stato per dare vita a un audit generale di tutti i voti. Un qualcosa che, potenzialmente, potrebbe ribaltare il responso ufficiale in uno Stato-chiave. Ovviamente, non accadrà. Per il semplice fatto che, Costituzione alla mano, tutte le dispute legali devono trovare risoluzione entro il 10 dicembre: altrimenti, Joe Biden sarà proclamato. E lo stesso è accaduto in Nevada, dove il giudice di una Corte statale chiamato a esprimersi su una disputata legata a voti illegittimi ha rimandato e poi chiuso il caso, salvo dover ammettere – mettendolo a verbale – “una preponderanza di prove” a favore della tesi dell’accusa.
Non vi basta? In una Corte dell’Arizona si è arrivati al paradosso di legittimare le tesi complottiste di Donald Trump, pur di prendere tempo. La difesa, infatti, ha ammesso che su un campione di 1.600 schede contestate, il vantaggio potenziale dell’ex Presidente di sarebbe ridotto solo a 6 preferenze, molto meno del 2-3% del totale che l’entourage di Donald Trump rivendicava come vantaggio “scippato” nel corso dello scrutinio. Al netto che, in questo modo, lo Stato ammette esplicitamente brogli, resta l’evidenza matematica di un margine di vittoria di Joe Biden così risicato da non poter far chiudere il caso. Il quale, infatti, resta aperto, paradossalmente a causa proprio delle ammissioni della difesa. Ovviamente, il tutto nella certezza che da qui al 10 dicembre nulla di concreto potrà accadere.
Infine, ecco il caso della Pennsylvania. Dove il giudice della Corte Suprema, Samuel Alito, domenica ha preso una decisione senza precedenti: cambiare una deadline in corso d’opera, stante una “dimenticanza” relativa alla cosiddetta safe harbor window, ovvero il periodo di tempo che deve intercorrere fra la risoluzione di una disputa legale e il voto dei rappresentati dello Stato per la nomina del Presidente. Tutto nasce dalla denuncia del deputato e fedelissimo trumpiano Mike Kelly, il quale ha presentato un ricorso relativo alla violazione della legge sia statale della Pennsylvania che federale in relazione al cosiddetto Act 77 della legge elettorale cambiata nel 2019: in parole povere, Mike Kelly ritiene che nelle operazioni di voto si sia abusato del cosiddetto regime di no-excuse mail-in, ovvero la scelta del voto per posta in assenza di un legittimo e comprovato impedimento ad adempiere al proprio dovere di persona e al seggio.
In prima istanza, il giudice Alito aveva fissato la scadenza per l’ottenimento di una risposta da parte dei funzionari della Pennsylvania per le ore 16.00 ora locale del 9 dicembre, salvo poi cambiare idea e rifissare la deadline alle 9.00 del mattino di oggi, 8 dicembre. La ragione? I deputati dello Stato si riuniranno per il voto di ratifica delle presidenziali alle 12.00 del 14 dicembre al Parlamento di Harrisburg e per legge ogni disputa legale che possa influenzare quel voto deve essere risolta almeno sei giorni prima della convocazione. La prima scadenza non rispettava la norma, la seconda sì. E, di fatto, accorcia pesantemente i tempi su cui può contare Mike Kelly per ottenere un parere ufficiale rispetto alle sue accuse, già rigettate con pregiudizio dalla Corte suprema della Pennsylvania una settimana fa.
Capito in quali condizioni sta arrivando alla Casa Bianca, il buon Joe Biden? Capite quale sia lo stato dell’arte nella più grande democrazia del mondo? E pensate, quindi, che Wall Street permetterà al nuovo eletto e al suo entourage di imprimere davvero un cambiamento, in primis rispetto al ruolo esiziale della Fed e della politica di trasferimento del Treasury? Sapete, sempre giovedì scorso, una fonte dell’amministrazione-ombra di Joe Biden come ha risposto a Bloomberg, a fronte della richiesta di un commento relativo ai continui, nuovi tweets di Donald Trump sui record azionari? The Biden team is poised to include alumni of finance, venture capital, private equity, and asset management. Un po’ come nei Blues Brothers, quando a domanda su quale musica si suonasse nel locale, la risposta fu un cerchiobottista We got both kinds, we got country AND western. Bene, l’amministrazione Biden farà convivere il progressismo spinto e dichiaratamente di sinistra di Kamala Harris con le grisaglie delle banche d’affari: la ricetta per il disastro garantito, insomma.
Signori, certe notizie servono solo a coprire la realtà. Proprio come il falso allarme di Pfizer sui vaccini. Pensate che la pantomima in atto sul Mes faccia eccezione? Le cortine fumogene non hanno confini, né passaporti.