Il fatto che la banca di riferimento del sistema Italia preferisca investire in un istituto fallito e risanato dal Governo tedesco piuttosto che nel suo quasi omologo domestico (Mps), vi dice nulla? Eh già, in modalità blitz, Unicredit ha acquistato il 4,5% di Commerzbank per 705 milioni di euro. Salendo così al 9% del totale. E confermando la volontà di crescere ancora. Nella Germania strutturalmente più in crisi dalla Riunificazione a oggi. E solo 24 ore dopo la comunicazione da parte della Cancelleria di Berlino della vendita proprio del 4,5% del capitale con collocamento accelerato.



Non vi siete accorti? Nel caso, ci penso io a confermarvi come non si tratti di un bel segnale. Anzi. Decisamente il contrario. Non fatevi quindi ingannare dalla retorica legata alla domanda record registrata dal Btp a 30 anni emesso martedì. Per carità, va benissimo. Sedici volte l’offerta, un bid da 130 miliardi. Ma quando l’asta si colloca a due giorni da un possibile taglio dei tassi da parte della Bce, certamente non serve l’intuito di un genio dei mercati per capire come gli investitori istituzionali si lancino sui bond sovrani percepiti come più solidi rispetto alla corposità del rendimento che ancora offrono. Insomma, ottima o fortunata coincidenza di calendario. Niente più. Meglio l’Italia della Turchia, per capirci, se si cerca yield. Questo è il messaggio del mercato, certamente non un upgrade di credibilità e standing finanziario internazionale da festeggiare con i fuochi d’artificio. Perché soltanto 24 ore prima e invertendo la rotta rispetto al mini-rimbalzo di maggio e giugno, il dato della produzione industriale italiana di luglio aveva segnato un -0,9% su base mensile, 18esimo calo consecutivo. E un -3,3% su base annua.



Non basta. Scorporando settorialmente il dato, nessun macro-comparto manifatturiero cresce. Nessuno. Mentre due cavalli di battaglia come auto e lusso segnavano cali rispettivamente del 35% e 18%. Un bagno di sangue. In compenso, unica eccezione in positivo appare quella dell’energia, capace di rendere meno desolante il quadro prospettico.

Attenzione, però. A questo. A Terni, l’acciaieria AAST ha chiuso uno dei due forni elettrici. La causa? Il perdurare degli alti costi energetici che non consentono all’azienda di essere competitiva nei confronti delle crescenti importazioni dall’Asia a prezzi stracciati. Lo comunica in una nota la stessa azienda, spiegando di prevedere al momento, di fermare un forno elettrico per una settimana a fine settembre. E ancora: Il livello del costo dell’energia elettrica in Italia, tre volte superiore a quello di altri Paesi europei dove sono basati i concorrenti di Aast, sta condizionando il piano di rilancio dello stabilimento umbro. Vuoi vedere che quei Paesi concorrenti sono tipo Austria e Ungheria, i quali se ne fregano e stanno comprando da mesi gas russo come se non ci fosse un domani e senza ormai nemmeno più preoccuparsi di occultarlo via Turchia?



Signori, al netto del nein scontato del ministro Lindner al suo brillante piano di ultra-indebitamento su base comune, il piano Draghi è morto in culla con la notizia che arriva da Terni. Perché non bastano nemmeno 1.000 miliardi in più di investimenti, quando ti sei suicidato. Signori, il peggio poi deve ancora arrivare. La Russia al momento sta pompando regolarmente attraverso l’Ucraina. Ma se con l’arrivo dell’autunno, una delle due parti in causa decidesse di comportarsi come gli Usa con il loro prezioso gas liquefatto, i dati di produzione industriale del quarto trimestre sarebbero da libri in tribunale. E proprio ieri, casualmente dagli Usa è arrivata la notizia del taglio del 26% di produzione di gas naturale nel Golfo del Messico a causa del passaggio della tempesta tropicale Francine.

Ora, guardatevi intorno. E unite i puntini. Quale credibilità può avere un piano a leva in stile Trichet, quando solo 24 ore dopo la sua presentazione in pompa magna, la Presidente della Commissione europea deve rinviare la presentazione della sua squadra, poiché l’intero dibattito è ancora dilaniato e posto in stand-by dai veti incrociati delle varie famiglie politiche? Stiamo scherzando, forse? Abbiamo votato il 9 giugno. E tre mesi dopo abbiamo ancora soltanto il nome certo della von der Leyen. Per il resto, caos e impasse. Mentre il mondo sta letteralmente andando a fuoco. Mercati inclusi. E il caso Italia è ancora più grave.

In attesa che il voto di domenica 22 in Brandeburgo ci dica se Olaf Scholz, in ossequio alla poltrona, manderà in pensione oltre alle sanzioni contro Mosca anche i piani di dittatura elettrica dell’auto nel 2035, fermiamoci e riflettiamo. Da dieci giorni, la classe politica e media di questo Paese stanno parlando unicamente di corna. Corna. Come in un film anni Ottanta con Lino Banfi e Alvaro Vitali. Mentre l’acciaieria di Terni chiude un forno. E scoperchia il vaso di Pandora: i costi energetici nel nostro Paese sono già ora insostenibili per la produzione industriale. E, infatti, il dato si inabissa. Ma non dovevamo essere totalmente coperti e assicurati dalle forniture dell’amico americano e da quello algerino? Vuoi vedere che, come volevasi dimostrare, trattasi di bufale a uso e consumo della propaganda russofoba? Davvero possiamo permetterci un Governo i cui principali esponenti dormono con la foto di Zelensky sul comodino accanto a quella di moglie e figli (e amante nel cassetto)? Davvero ci possiamo permettere Antonio Tajani a gestire la politica estera e Guido Crosetto quella di difesa? No. Se il caso Sangiuliano ha insegnato qualcosa è che occorre far pulizia. Tra chi si professa di centrodestra e chi tiene il piede in un’intera scarpiera politica. Perché quando per 18 mesi consecutivi la tua produzione industriale cala e la tua industria pesante ed energivora appare ormai sul piatto d’argento dei concorrenti europei, il tempo delle mediazioni e dei falsi sorrisi fra alleati è finito. Perché quell’asta record di Btp trentennali ci dice solo che si corre a comprare per spuntare un buon rendimento, prima che la Bce tagli e schiacci al ribasso i premi di rischio. Nulla più. Nessuna fiducia del mercato. Nessun caso Italia in positivo. In compenso, c’è il caso Terni che sbugiarda mesi e mesi di retorica di Giorgia Meloni sul tema sensibile ed esiziale dell’approvvigionamento energetico della nostra economia. Ormai lo dicono tutti. Persino chi odia Vladimir Putin. Senza l’energia a basso costo e garantita delle pipeline russe, scordiamoci recupero di competitività.

Signori, la realtà è testarda. E ora torna a bussare alla porta. E sapete qual è? Per cercare di fermare il declino, non serve l’agenda dei sogni di Draghi. Serve far pace con il Cremlino. I tedeschi lo hanno capito. Gli austriaci anche. I francesi hanno il nucleare. Gli ungheresi non hanno mai litigato. Noi, invece, abbiamo chiacchiere, promesse e chimere. Ma sullo sfondo, c’è Terni.

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