Tira proprio una brutta aria. Ma brutta davvero. Sembra di vivere dentro un remake un po’ troppo realistico del film Suburra e del suo conto alla rovescia verso l’apocalisse. E sapete cosa me lo fa dire? Il fatto che la narrativa ufficiale sia di segno diametralmente opposto. Per l’Economist, infatti, l’Italia è il Paese dell’anno 2021. Applausi scroscianti dal loggione della maggioranza di governo, maionese sempre più slegata e in attesa di totale impazzimento con i trappoloni assortiti che si stanno preparando con il voto per il Quirinale. E, ovviamente, lodi sperticate nei confronti dell’uomo che ha reso possibile questo risultato, Mario Draghi.



La stampa, nemmeno a dirlo, ha coperto l’avvenimento con acritico giubilo. Non tutti sanno che il settimanale britannico è di proprietà della Exor. Ovvero, degli Agnelli. Insomma, l’oste garantisce che il suo vino è il migliore. Fin qui, nulla di male. Come non stupisce che la sinistra italiana abbia magnificato l’avvenimento, stesa com’è da sempre in postura da zerbino in direzione Mole antonelliana. Qualche dubbio in più lo fa sorgere l’entusiasmo del centrodestra di governo, non fosse altro perché si tratta del medesimo organo di stampa che definì unfit a governare il suo leader storico. E da qualche tempo ha iniziato una campagna di character assassination preventiva verso Giorgia Meloni, l’unica donna in Italia che non usufruisce del trattamento WWF (decisamente insolente e insultante per l’intelligenza femminile) che il neo-femminismo da caricatura stende con pennellate generose per chiunque nasca sotto l’auspicio del fiocco rosa.



Che strano, poi: quel medesimo Silvio Berlusconi contro cui il settimanale inglese si scagliò con ardore degno di miglior causa, oggi sarebbe formalmente il candidato al Quirinale del centrodestra. E Giorgia Meloni elemento fondamentale della coalizione che punta a governare l’Italia del post-Draghi. Tant’è, la politica ha i suoi riti e le sue convenienze. In compenso, la gente comune può trarre giovamento e un visione un po’ più prospettica dell’importanza del riconoscimento ottenuto dal nostro Paese scoprendo che le tre edizioni precedenti del medesimo premio furono assegnate rispettivamente ad Armenia, Malawi e Uzbekistan. Confortante come compagnia, di fatto la certificazione dell’Italia come Paese emergente. A volte, l’eccesso di zelo verso il potere è controproducente. Ma rivelatore del clima.



Perché quindi dico che tira un’ariaccia? Perché anche la situazione più emergenziale imporrebbe un limite. E non sto affatto riferendomi alla tragicomica vicenda legata al Covid, il cui precipitare nel ridicolo più confinante con la distopia sta facendo scuola, restrizione dopo restrizione, nuova dose di vaccino risolutiva dopo l’altra. No, mi riferisco ad altro. Al fatto che a cadaveri dei tre poveri lavoratori morti sulla gru di Torino ancora caldi, casualmente il Governo abbia trovato l’accordo per il pensionamento anticipato dei lavoratori edili. Di fronte alla morte, occorre rispetto. Di fronte a quelle morti, poi, occorrerebbe di più. Una presa d’atto. Brutale. Ma necessaria, prima di essere inghiottiti irrimediabilmente in una spirale di menzogna talmente auto-alimentante da somigliare a una dipendenza da droga o alcool.

Quante di quelle morti hanno reso possibile quel 6% di Pil di cui ci vantiamo da trimestri e che sta alla base del riconoscimento dell’Economist e delle belle parole di Ursula Von der Leyen in visita a Milano? I sindacati di categoria sono stati chiari, almeno per una volta, evitando il linguaggio ideologico da lotta di classe fuori tempo massimo: l’abuso di super-bonus edilizio ha tramutato il settore in un Far West e i cantieri in un mortale soggetto di terno al lotto per chi ci lavora. E signori miei, non occorreva la denuncia dei sindacati. Basta girare per Milano o per Roma. Cantieri ovunque. E con la medesima modalità di disperata pre-anarchia verso le regole base che la scorsa estate caratterizzò il fiorire di dehors e gazebi all’aperto per bar e ristoranti. L’emergenza. La stessa che ha portato un suo notevole contributo a quel 6% di cui andiamo tanto fieri. Ma che è, giova ricordarlo, solo un rimbalzo dall’abisso del 2020. E che, soprattutto, opera in regime di deregulation per molti comparti strutturalmente in crisi e non competitivi. Come quelle tre vite spezzate in una mattina che già guardava al Natale ci ricordano. Loro il Natale non lo festeggeranno. E nemmeno le loro famiglie. In compenso, i lavoratori del comparto potranno andare in pensione a 63 anni e con 30 anni di contributi. La tragedia di Torino ha garantito la nascita di Quota 93. Evviva. Chissà che qualche altro settimanale non tributi un premio anche per questo.

Ma chi pensa di creare crescita e ripresa sull’emergenza, ha sbagliato strada. Perché per farlo, occorre un altro elemento fondamentale, oltre alla paura ansiogena: la privazione dei diritti. O, quantomeno, il loro ridimensionamento. Per governare l’economia in nome del lasseiz-faire disperato accompagnato al ricatto occupazionale serve la Cina, quindi l’autoritarismo. Il coté di restrizioni e limitazioni della pandemia stanno forse operando da stress test? Perché basta dare un’occhiata ad altri comparti strategici ma meno dipendenti da deroghe, scappatoie e abusi sistemici dell’edilizia come la manifattura e l’industria per vedere che di oro fra il luccichio della narrativa ne è presente in realtà ben poco. Esattamente come l’inflazione, neppure la crisi sulla supply chain globale è transitoria. Anzi. Sempre più case automobilistiche stanno bloccando le produzione, causa mancanza di componentistica. Il porto di Los Angeles ha dovuto aggiornare i nuovi massimi nei tempi di attesa e la Cina, già oggi con gli hub per container totalmente imballati, sta operando da potenziale detonatore: se Omicron o chissà quale altra variante dovesse imporre una quarantena in uno dei mega-scali commerciali, sarebbe game over almeno per tutto il primo semestre del 2022.

Basta guardare i numeri e le statistiche, non serve affatto vaticinare in punta di pessimismo. O malanimo anti-governativo e anti-patriottico. In questo Paese vantiamo, da decenni ormai, il poco onorevole ed edificante record di circa 1 morto sul lavoro al giorno: statistica da tg, cifre che scivolano via come previsioni meteo. In realtà, un marito e un padre che al mattino alle 6 saluta la famiglia per andare in cantiere. Avendolo inconsapevolmente fatto per l’ultima volta. Sono un po’ troppe e un po’ troppo strutturali le cosiddette morti bianche per essere derubricate a tragiche fatalità. Spingere sull’emergenza come si è fatto e si continua a fare con mezzucci come il super-bonus porta a questo, inutile negare l’evidenza a cielo aperto di città che – di colpo – vivono un fermento di facciate in rifacimento degne del secondo Dopoguerra. Prendiamone atto, quantomeno per rispetto delle famiglie di chi non c’è più in nome del salario: quel 6% di cui tanto ci vantiamo e che ci ha garantito il riconoscimento dell’Economist (dopo Armenia, Malawi e Uzbekistan) emana un cattivo odore. E ha sapore ancora peggiore, se lo si mastica bene prima di ingoiarlo. A forza. Come facciamo ormai da sei mesi con tutto ciò che palazzo Chigi ci vende come necessario.

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